Il summit di Hanoi è stato davvero un fallimento come dicono, o piuttosto, alzandosi dal tavolo il presidente Trump lo ha evitato, paradossalmente regalando qualche chance a un accordo difficile – se avrà la pazienza di tenere duro? Quanti altri presidenti avrebbero resistito alla tentazione di firmare un cattivo accordo, o almeno un’altra generica dichiarazione congiunta di impegni citando non meglio precisati progressi, pur di non tornarsene a casa a mani vuote? Pensiamo solo a quanto gli avrebbe fatto comodo tornare da Hanoi con qualcosa in grado di eclissare la concomitante audizione al Congresso del suo ex avvocato Michael Cohen.
Invece, si è preso le brutte prime pagine ma ha fatto la cosa giusta, continuando a spiazzare sia i suoi critici che i suoi interlocutori a Pyongyang e Pechino. Esperti e commentatori ci hanno raccontato che con le sue minacce ci stava portando sull’orlo di una guerra nucleare, invece quelle “inutili e pericolose provocazioni” hanno quanto meno aperto uno spiraglio di dialogo. Poi, hanno sostenuto che non avrebbe mai dovuto incontrare Kim e che avrebbe finito per concedere troppo in cambio di poco o nulla. Oggi, dopo che ha avuto le palle di andarsene, emettono una sentenza quanto meno prematura: fallimento.
Cerchiamo di farci largo nell’intricata giungla di pregiudizi della stampa mainstream e dei cosiddetti “esperti” e di capire come sono andate le cose.
Con la decisione di abbandonare il summit, Trump ha fatto capire di non essere disponibile a firmare qualsiasi cosa pur di esibire un accordo, di avere altre valide opzioni e, in ogni caso, di non avere alcuna fretta. Se qualcuno a Pyongyang e Pechino ha pensato che fosse ormai troppo compromesso, che avesse investito troppa della sua credibilità personale per tirarsi indietro, dovrà ricredersi. “No deal is better than a bad deal”, come ha ricordato ieri alla Cnn il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton, è il messaggio forte e chiaro lanciato da Hanoi e che la premier britannica May non ha mai avuto il coraggio di far arrivare a Bruxelles nei negoziati sulla Brexit. Ed è proprio la riluttanza dell’ex presidente Obama ad abbandonare il tavolo con l’Iran, escludendo a priori la possibilità del fallimento dei negoziati, ad aver prodotto il pessimo accordo sul programma nucleare iraniano (una mera sospensione a fronte di miliardi di dollari investiti da Teheran per destabilizzare il Medio Oriente).
Qualcuno ha ricordato il precedente di un altro famoso summit, quello dell’ottobre del 1986 a Reykjavik, quando il presidente Reagan si alzò e se ne andò non concludendo l’accordo con Gorbachev. Fu criticato da entrambe le parti: da chi era sconcertato per il solo fatto che si fosse seduto a negoziare con quello che lui stesso aveva definito “Impero del Male”; e da chi gli rimproverava di aver gettato alle ortiche una prospettiva di pace per tenersi una tecnologia difensiva ritenuta irrealizzabile. Un anno dopo, i due presidenti erano lì che firmavano il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio, “sminando” l’Europa da circa l’80 per cento delle testate, ma senza alcuna rinuncia degli Usa alla difesa anti-missile, richiesta in precedenza da Gorbachev.
Trump ha fatto anche una seconda cosa giusta: buon viso a cattivo gioco. Ha avuto la lucidità di evitare una reazione eccessiva, preservando il rapporto personale con Kim e concedendo a entrambe le parti il tempo per valutare i propri errori di giudizio e ricalibrare la propria tattica negoziale, lasciando quindi aperte le porte del dialogo.
Come valutare invece la mossa di Kim? Non così ingenua o provocatoria. Solo apparentemente i nordcoreani hanno sovrastimato le loro carte. In passato, infatti, le precedenti amministrazioni Usa sono cadute in trappole molto simili, anche se i presidenti non erano esposti in prima persona. Non sorprende quindi che abbiano voluto tentare anche questa volta lo stesso gioco, la vecchia tattica: ottenere sollievo dalle sanzioni e un beneficio economico immediato prima di muovere passi sostanziali verso la denuclearizzazione, solo come ricompensa per essersi seduti al tavolo e aver sospeso i test nucleari e missilistici.
Ciò che Kim ha offerto a Trump è “more of the same”: in cambio della revoca di tutte le sanzioni, o di quelle più dannose, la chiusura della vecchia centrale di Yongbyon, più volte fermata e riavviata nel corso di decenni di prese in giro, che in ogni caso è solo uno degli impianti di produzione di materiale fissile. La sua chiusura lascerebbe praticamente inalterate le capacità nucleari nordcoreane – stock esistenti, testate, missili balistici, altri impianti di produzione. Insomma, come pretendere il massimo risultato con un minimo, quasi simbolico sforzo.
Probabile che i nordcoreani non si aspettassero che il presidente Trump avrebbe abbandonato il tavolo anticipando di qualche ora la chiusura del summit. Sorpresa, sconcerto, è l’impressione che si ricava dai loro tempi e modi di reazione. Mentre Kim e i suoi negoziatori si aspettavano probabilmente di tornare da Hanoi se non con un accordo completo, almeno con qualcosa di concreto, Trump e i suoi si erano presentati tutt’altro che in modalità naif, pronti anzi a rilanciare su ulteriori capitoli: “Abbiamo portato molti, molti punti in più che penso siano stati sorpresi che noi conoscessimo”, ha spiegato il presidente Usa durante la sua conferenza stampa.
Kim aveva investito molto in questo summit, forse anche più del presidente Trump. Dopo tutta la propaganda positiva prima e durante il vertice – un evento senza precedenti per la Corea del Nord, celebrato come un successo già alla vigilia – aveva un gran bisogno di tornare con qualcosa in mano. L’interruzione dei colloqui dev’essere stata un brusco risveglio, frustrante, per lui e anche per i suoi più esperti negoziatori. Ora la leadership nordcoreana dovrà rendersi conto di trovarsi di fronte a qualcosa di molto diverso, nel bene e nel male, rispetto ai negoziati con le precedenti amministrazioni Usa e ad un presidente che non è lo zotico fanfarone che viene dipinto.
Come abbiamo più volte sottolineato su Atlantico, l’idea dei summit faccia a faccia con Kim è certamente un azzardo, per l’elevato rischio che si accontenti della legittimazione e dello standing internazionale guadagnati, e ancor più perplessi siamo sulla reale volontà di Pyongyang di denuclearizzare (scommetteremmo il contrario). Non bisogna mai dimenticare che oltre ai rapporti personali e agli approcci diplomatici, gioca un ruolo fondamentale la natura di un regime. Persino un “incredibile potenziale economico” potrebbe non fare presa su Kim e i suoi strateghi, dal momento che ciò che sta loro a cuore, la sopravvivenza di un regime che si regge sul terrore e sull’apparato militare, potrebbe essere incompatibile con la rinuncia all’arma nucleare e l’apertura necessaria a cogliere le opportunità economiche evocate da Trump.
Non è un caso che ciò che ancora manca, come ammesso dallo stesso Trump ad Hanoi, è una definizione condivisa di “denuclearizzazione della Penisola coreana”, che dal punto di vista di Washington dovrebbe impegnare Pyongyang a una completa, definitiva e verificabile eliminazione di tutti i suoi programmi, impianti e asset nucleari, senza rinuncia da parte Usa all’alleanza con Seul. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che Trump ha ereditato una crisi esplosiva che richiedeva disperatamente un nuovo approccio, sensibilmente diverso da quello fallimentare dei suoi predecessori, e piaccia o meno, se destinato anche questo al fallimento lo vedremo, ha saputo costruirlo e metterlo in atto. Da una parte, la “massima pressione” nei confronti non solo di Pyongyang ma anche, per la prima volta, di Pechino, con le sanzioni più dure mai approvate e i venti di guerra; dall’altra, la più coraggiosa prospettiva di normalizzazione dei rapporti, fino a evocare per la Corea del Nord un futuro prossimo di piena integrazione nel sistema economico internazionale. Insomma, il più grande bastone e la più grande carota mai visti. Ian Bremmer di Eurasia Group, certo non un trumpiano, ha dovuto riconoscergli di aver già ottenuto da Pyongyang più di qualsiasi altro suo predecessore: sanzioni più stringenti da parte della Cina; sospensione dei test nucleari e missilistici; rilascio di prigionieri.
Il summit di Hanoi ci dice che Trump non è caduto, per il momento, nella stessa trappola in cui sono caduti i suoi predecessori e che ora la palla è nel campo di Kim. Lasciando il tavolo, peraltro serenamente e garbatamente, senza tradire irritazione, il presidente Usa ha messo il leader nordcoreano davanti a un bivio: impegnarsi sul serio in un processo lungo e tortuoso, con la prospettiva di un grande e storico accordo, o riprendere la vecchia tattica di test nucleari e missilistici, rischiando però che stavolta non funzioni e di precipitare di nuovo nell’isolamento diplomatico. Il summit di Singapore era per “conoscersi”, quello di Hanoi il momento della verità per Kim: pensare in grande, o tornare “the rocket man” e sopportarne le conseguenze.
Non può passare inosservato che lasciando il vertice il presidente Usa ha ricordato la promessa di Kim di non condurre nuovi test. Se ora decide di tradire la sua fiducia, Trump saprà che a Pyongyang ha prevalso la linea dei falchi e che è tempo di riconsiderare la sua strategia nei confronti della minaccia nucleare nordcoreana.
Kim dovrà valutare attentamente le sue prossime mosse anche perché la straordinaria coincidenza di fattori che gli hanno permesso di guadagnare la ribalta internazionale negli ultimi mesi potrebbe non durare a lungo. Una pressione ulteriore: il fattore tempo. Al di là di questa visibilità, infatti, di concreto non ha ancora ottenuto nulla e la finestra di opportunità concessagli dal nuovo approccio diplomatico Usa potrebbe chiudersi rapidamente, per esempio se Trump non dovesse essere rieletto.
Da capire infine il ruolo che sta giocando Pechino. Non si può non considerare il negoziato con Pyongyang nel contesto di quello commerciale tra Stati Uniti e Cina. In questo momento, in cui quest’ultimo sembra vicino a una svolta positiva, non è da escludere che Washington e Pechino si parlino anche attraverso Kim e il dossier nordcoreano. Trump ha dimostrato di non temere di alzarsi e andarsene di fronte a un cattivo accordo anche nel mezzo di negoziati e, così facendo, ha aumentato la pressione su Xi Jinping, mentre quest’ultimo potrebbe aver suggerito a Kim di alzare la posta per evitare che Trump tornasse da Hanoi con un successo che l’avrebbe rafforzato.