Miti che crollano. Quello di Donald Trump presidente impopolare, impresentabile, detestato come nessuno, è ufficialmente entrato in crisi il 2 aprile scorso, quando Rasmussen ci ha informato che l’indice giornaliero di approvazione del suo operato alla Casa Bianca aveva raggiunto il 50 per cento, per arrivare due giorni dopo al 51 (contro il 48 percento di disapprovazione). Per farsi un’idea, il 4 aprile 2010, al suo secondo anno di mandato, Obama si era fermato al 46 per cento. Senza voler assolutizzare niente – questi indici si alzano e si abbassano, anche sensibilmente, da un giorno all’altro su base costante, tanto che soltanto un paio di giorni dopo l’indice era nuovamente in calo di quattro punti – la soglia simbolica del 50 per cento è importantissima, per non dir nulla dell’impietoso raffronto dal quale un presidente considerato tra i più amati esce fuori malamente.
Gallup, per parte sua, informava negli stessi giorni che sei americani su dieci si dicono convinti che i giovani d’oggi avranno una vita migliore di quella dei loro genitori (nel 2011 erano solo il 44 per cento, un risultato molto distante dal 66 per cento misurato nel febbraio 2008, cioè una manciata di settimane prima della Great Recession).
Ovviamente, insieme al mito del presidente impopolare crollano le azioni dei mainstream media, che quel mito l’hanno creato e alimentato. Per descrivere lo stato dell’arte della grande informazione, Thomas Lifson, sociologo californiano nonché fondatore e direttore di American Thinker, aveva coniato quattordici anni fa la metafora di “un guidatore bloccato nella neve, che preme l’acceleratore e trova che le ruote girano a vuoto, rendendo la marcia ancora più difficile.” Ebbene, un sondaggio della Monmouth University ha rivelato nei giorni scorsi che la convinzione che i maggiori media diffondano, almeno occasionalmente, fake news è cresciuta in un anno sia tra i repubblicani (dal 79 per cento all’89 per cento), sia tra gli “indipendenti” (dal 66 per cento all’82 per cento), sia tra i democratici (dal 43 per cento al 61 per cento). Chiaramente quest’ultimo è il dato più eclatante. Come se non bastasse, dal sondaggio risulta che ben il 53 per cento dei repubblicani ritiene che la diffusione di fake news avvenga “regolarmente” (un anno fa questa percentuale si fermava al 37 per cento). Mentre il 42 per cento di tutte le persone intervistate di dicono convinte che tale andazzo non sia “accidentale” o dovuto a scarso fact checking, e dunque che la propagazione di notizie false avvenga “deliberatamente” e allo scopo di portare avanti un’agenda prestabilita.
La ciliegina sulla torta, allargando un po’ il discorso, è che un altro recente sondaggio Gallup conferma abbondantemente che l’America è ancora, nella sostanza, la Right Nation descritta nel celeberrimo libro di John Micklethwait e Adrian Woolddridge (nella traduzione italiana, La destra giusta, Mondadori, 2005). Infatti i conservatori sopravanzano i liberals in ben 39 stati su 50. Non solo, tra gli intervistati repubblicani, quelli che si considerano conservatori sono il 69 per cento (erano il 62 per cento nel 2011), contro il 25 per cento che si sentono “moderati” (il 31 per cento nel 2011) e solo il 5 per cento che si definiscono liberals (il 6 per cento nel 2011). Interessante notare che l’incremento dei conservatori, ai danni sia dei liberals sia dei moderates, si accompagna con il dato molto significativo sull’orientamento ideologico dei Democrats: quelli che si considerano liberals sono passati dal 30 al 50 per cento mentre i moderati sono passati dal 44 al 35 per cento e i conservatori dal 25 al 13 per cento. Mettere in relazione le due tendenze è pressoché inevitabile, e utilizzare gli orientamenti ideologici prevalenti tra i dems come possibile chiave di lettura dello spostamento a destra degli elettori americani non lo è di meno. In pratica, sembrerebbe che non siano tanto gli elettori quelli che hanno mutato il proprio orientamento di fondo, quanto la componente che vota per i democratici, determinando come conseguenza un travaso di consensi in favore dei conservatori. Del resto, come molti sui social media e sui blog fanno spesso notare, oggi uno con le idee di John F. Kennedy non si riconoscerebbe nel partito di Obama e di Hillary Clinton.
Last but not least, un sondaggio di Survey USA del gennaio scorso ci informa che la California, che teoricamente dovrebbe essere la quintessenza di uno stato “di sinistra”, vede in vantaggio i conservatori sui liberals (29 per cento contro 25 per cento), rispetto al 33 per cento a 28 per cento dei liberals sui conservatori registrato nell’ottobre del 2017. Un dato quasi sconvolgente, e volendo si può togliere il “quasi”. C’è materia su cui riflettere, soprattutto i democratici, e, volendo, anche i RINOs (Republicans in Name Only, repubblicani solo di nome) à la Jeb Bush, Paul Ryan, Mitt Romney e, ovviamente, John McCain.