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SPECIALE ITALYGATE/1 – Tutte le strade del Russiagate che portano a Roma: i casi Mifsud e EyePyramid

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L’indagine del procuratore speciale Mueller si è conclusa senza nuove incriminazioni e senza prove di collusione, ma non è stata ancora scritta la parola fine sul Russiagate. Il caso si trasforma, diventa FBIgate, come avevamo anticipato un anno fa su Atlantico. L’attenzione si sposta sull’opaca condotta dell’agenzia, sul sospetto Watergate di Obama. “Spionaggio c’è stato”, ha affermato l’Attorney General William Barr al Congresso, aggiungendo che ora è suo dovere capire se ci sia stato abuso di potere da parte delle agenzie federali, se abbiano agito nel rispetto di norme, regole e paletti. Per questo occorre andare a “revisionare origini e condotta” dell’indagine sulla Campagna Trump. Il presidente sembra intenzionato ad andare fino in fondo per capire quando e come è nata quella che ha fin dall’inizio chiamato una “caccia alle streghe”, e chi c’è dietro. “Hanno spiato la mia campagna (non dimenticheremo mai)”, ha twittato. Non c’è dubbio che l’amministrazione Obama abbia spiato la campagna del candidato di opposizione. Ora, bisogna chiarire se c’era una valida ragione per farlo, o se si è trattato di una iniziativa politicamente motivata.

Il deputato repubblicano Devin Nunes, ex presidente della Commissione Intelligence della Camera, afferma che la Commissione ha raccolto prove che dimostrerebbero come uomini legati alla Campagna Clinton e agenti di alto livello di FBI e Dipartimento di Stato abbiano iniziato a indagare a fine 2015-inizio 2016, ben prima dell’apertura dell’inchiesta formale a fine luglio 2016, continuando ad alimentare tramite leaks alla stampa la bufala della collusione, pur in assenza di prove.

Ma c’è di più: oltre al sospetto che l’FBI abbia tramato contro il candidato e poi presidente Trump, stanno emergendo sempre più nitide le impronte di manine straniere. No, non russe, ma di alleati Usa. E, come vedremo, è a Roma dove la trama del Russiagate potrebbe aver avuto origine, o quanto meno sviluppi decisivi. Nunes ha già depositato “criminal referrals” al Dipartimento di Giustizia che potrebbero riguardare anche soggetti stranieri e il loro ruolo nelle origini dell’indagine. In questi giorni è a Roma una delegazione di congressmen Usa guidata dal presidente della Commissione Giustizia del Senato, e importante senatore vicino a Trump, Lindsey Graham. Ieri una riunione alla Farnesina con il ministro degli esteri Moavero Milanesi. Libia, Cina, Russia, Venezuela, i temi certamente al centro dei colloqui, ma chissà che non si sia parlato anche delle indagini sulle origini del Russiagate.

L’FBI, è il sospetto, si sarebbe prestata, giocando di sponda con personaggi legati alla Campagna Clinton, a fabbricare o avvalorare le evidenze di contatti tra la Campagna Trump e i russi, attirando gli sprovveduti consiglieri con la “mela del peccato”, il materiale compromettente sull’avversaria hackerato dai server del Comitato nazionale democratico. Tutto ciò doveva servire a screditare il candidato Trump prima dell’8 novembre e come “polizza di assicurazione” nel caso fosse stato eletto, per sabotare la sua presidenza. Ma l’FBI, è un’altra ipotesi, potrebbe anche essersi fatta trarre in inganno per il forte pregiudizio anti-Trump dei suoi vertici e degli agenti coinvolti, i quali avrebbero deciso di dare credito, aprendo indagini e cercando riscontri tramite propri informatori, alle informazioni ricevute da asset di intelligence alleate, che avrebbero propinato loro proprio ciò che avrebbero voluto sentirsi dire, e cioè che c’erano elementi di collusione.

La figura del professore maltese Joseph Mifsud è centrale, perché è sulla base dei suoi incontri con uno dei consiglieri (per poche settimane) della Campagna Trump, George Papadopoulos, che il 31 luglio 2016 l’FBI apre l’indagine formale di controintelligence denominata “Crossfire Hurricane”. Centrale si rivelerà anche il dossier Steele, elemento decisivo usato dall’FBI per ottenere, il 21 ottobre 2016, l’autorizzazione a sorvegliare in base alle norme FISA un altro consigliere, Carter Page, e tramite lui la Campagna Trump. Come vedremo, sia Mifsud che Steele sono passati per Roma.

Uscito quasi indenne dall’inchiesta Mueller (14 giorni di carcere per aver dichiarato il falso all’FBI), Papadopoulos ha di recente pubblicato un libro, “Deep State Target”, in cui racconta il suo coinvolgimento e definisce l’Italia “l’epicentro della cospirazione”. “Il Russiagate – dichiara in un’intervista a La Stampa – è un complotto ordito per rovesciare il presidente Trump, e l’Italia ha contribuito ad organizzarlo. Io sospetto che i servizi di intelligence di Roma abbiano avuto un ruolo, a partire dal loro rapporto con Joseph Mifsud, che si nasconde nel vostro Paese”. Come racconta sempre a La Stampa, è a Roma, il 14 marzo 2016, che incontra per la prima volta Mifsud – all’epoca di base a Londra e direttore della London Academy of Diplomacy, ma anche docente all’università Link Campus, alla quale come vedremo sono vicini molti altri protagonisti di questa storia:

“Ho incontrato Mifsud ad una conferenza della Link Campus sulla cyber intelligence a cui erano intervenuti anche Gianni Pittella, il senatore del Copasir Giuseppe Esposito, il direttore della Polizia Postale Roberto Di Legami. Il suo avvocato, Stephen Roh, ha detto che quando Mifsud interagiva con me lavorava per l’FBI, e il sospetto è che fosse un agente italiano. Non ho informazioni classificate, ma le connessioni con l’intelligence di Roma e Link Campus sono note”.

I due si incontrano quattro volte in tutto tra il marzo e l’aprile di quell’anno, a Roma e a Londra. Mifsud è di casa al Valdai Club, la Davos russa, e Papadopoulos, sapendo dell’intenzione di Trump di ricucire con Putin, si convince che i suoi contatti possano aiutarlo a organizzare un incontro tra i due. O meglio, viene aiutato a crederci. Agganciato GP a Roma, il professore arriva al secondo incontro, il 24 marzo a Londra, accompagnato da una attraente ragazza russa, Olga Polonskaya, presentata come la nipote di Putin (non lo è). Papadopoulos è sempre più convinto di aver trovato l’uomo giusto. E il 26 aprile, sempre a Londra, Mifsud gli confida di aver incontrato a Mosca “esponenti di alto livello del governo russo” che gli hanno fatto sapere di avere “roba sporca” (“dirt”) sulla Clinton: migliaia delle sue email hackerate.

Dunque, Misfud sarebbe un testimone chiave del Russiagate, peccato che scompaia nel nulla poco dopo aver raggiunto la “fama” grazie a un articolo del Washington Post, che il 30 ottobre 2017 rivela per la prima volta il suo nome. Due giorni dopo, in un’intervista a la Repubblica, dal suo studio alla Link, nega di aver mai parlato di segreti riguardanti Hillary (“sciocchezze”) e di conoscere uomini dell’apparato di governo russo. Sostiene di essersi limitato a “favorire rapporti” tra esperti, i suoi contatti sono solo accademici, si definisce “di sinistra”, persino clintoniano. Poi svanisce nel nulla ed è tuttora irrintracciabile. Ma la cosa strana è che nessuno lo cerca: né gli istituti per i quali ha lavorato e nei quali ricopriva ruoli nient’affatto secondari, né la stampa, né le autorità politiche italiane (nemmeno un’interrogazione parlamentare o una seduta del Copasir). Nemmeno la magistratura – la Procura di Roma, per esempio, dove il professore spesso viveva e lavorava – nonostante una condanna a suo carico della Corte dei Conti di Palermo.

Strano anche che nessuno – né l’FBI, né altre agenzie americane o europee – si comporti come se Mifsud fosse davvero un agente russo. Nessuno ha cercato di arrestarlo, né messo in allerta gli alleati, nonostante i danni che potrebbe aver arrecato grazie ai suoi rapporti con politici di primo piano, istituzioni e agenzie di sicurezza occidentali – rapporti continuati come se nulla fosse anche dopo l’arresto e la “confessione” di Papadopoulos. Circa una settimana dopo averlo interrogato, l’FBI ha sentito anche il professore, che si trovava tranquillamente a Washington per una conferenza del Dipartimento di Stato. Ma non fu arrestato né incriminato da Mueller.

È una figura ben nota nei circoli accademici, politici, diplomatici e di intelligence occidentali. Teneva corsi a funzionari di polizia e dei servizi, soprattutto inglesi e italiani. Significativo il suo rapporto di lunga data con la diplomatica britannica Claire Smith, membro della Joint Intelligence Committee del Regno Unito. In Italia, dopo il suo coinvolgimento nel Russiagate, lo definisce “un caro amico” Gianni Pittella, ex capogruppo dei socialisti al Parlamento europeo, esponente di punta del Pd, fervente clintoniano e anche lui di casa alla Link Campus, dove da anni ex funzionari e analisti NSA e CIA insegnano. Dal 2010 anche l’FBI forma studenti nell’università romana fondata dall’ex ministro dell’interno Vincenzo Scotti.

Una sparizione misteriosa e perfettamente organizzata quella di Mifsud, che pare impossibile senza coperture professionali. Papadopoulos è convinto che sia tenuto nascosto in Italia, che fosse un asset dei servizi italiani e/o inglesi che interagiva con l’FBI, a cui era stato affidato il compito di adescarlo, dargli false informazioni sulle email hackerate ai Democratici nella speranza che le girasse alla Campagna Trump, per costruire un falso scenario di collusione: l’offerta di un “aiutino” russo per vincere le elezioni. Se è così, ha in parte funzionato. La rivelazione di Mifsud a Papadopoulos sulle email ha fornito all’FBI il pretesto per lanciare la “full investigation” sulla Campagna Trump. “Stiamo parlando del 2016, quando Renzi era il premier in Italia. Mifsud era vicino alla sinistra, e Pittella lo aveva anche invitato ad una cena con Hillary durante la campagna presidenziale”, racconta Papadopoulos a La Stampa.

Lo stesso Papadopoulos avrebbe poi dichiarato al Congresso Usa che fu invitato alla conferenza del 14 marzo alla Link Campus dalla London Centre for International Law Practice, per la quale lavorava e alla quale aveva appena comunicato che di lì a poco sarebbe partito per gli States per unirsi alla Campagna Trump. E in particolare, che fu “una donna a Londra, attaché legale dell’FBI nel Regno Unito”, a incoraggiarlo a “incontrare Mifsud a Roma a marzo 2016”. Il giorno dopo quel primo incontro, l’agente FBI Peter Strzok, che a fine luglio avrebbe aperto Crossfire Hurricane, scrive all’agente e sua amante Lisa Page un messaggio in cui dice “il nostro uomo sta parlando all’estero”. Si tratta dei due agenti anti-Trump che nell’agosto di quell’anno parleranno dell’indagine come di una “polizza assicurativa” nel caso in cui Trump fosse stato eletto. Si riferiva a Mifsud? Oppure allo stesso Papadopoulos, che dunque era già tenuto d’occhio? E da chi?

Papadopoulos viene inoltre avvicinato, il 5 maggio 2016, sempre a Londra, dal diplomatico australiano Alexander Downer, al quale imprudentemente, dopo aver bevuto, confida delle email compromettenti di Hillary di cui gli aveva parlato Mifsud. Downer, noto per i buoni rapporti con i Clinton, che probabilmente aveva registrato la conversazione, informa l’intelligence del suo Paese. A giugno WikiLeaks diffonde le email hackerate del Comitato democratico e l’ambasciatore australiano negli Usa Joe Hockey ritiene di inoltrare all’FBI, verso fine luglio, l’informazione di Downer, che fa scattare l’indagine formale.

Insomma, ce n’è abbastanza per porre alle autorità italiane qualche domanda su Mifsud.

Ma c’è un altro caso che potrebbe collocare le origini del Russiagate in Italia, a Roma. È il caso “EyePyramid”, dal nome attribuito dagli investigatori al malware con il quale Giulio e Francesca Maria Occhionero avrebbero hackerato migliaia di account email e pc per spiare in pratica tutto il mondo politico ed economico italiano, e carpirne le informazioni. Tra gli account presi di mira, ricorderete, quelli di politici, istituzioni, ministeri, società ed enti pubblici. Tra le vittime di primo piano degli attacchi, riusciti o tentati, spiccano l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, il senatore Mario Monti, il presidente della Bce Mario Draghi, il cardinale Ravasi. Nel luglio 2018, i due sono stati condannati in primo grado per accesso abusivo a sistemi informatici (nessuno sviluppo ancora per quanto riguarda il procedimento parallelo per il più grave reato di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato), ma continuano a proclamarsi innocenti e, anzi, denunciano di essere vittime di un disegno precostituito. Tanto da aver sporto denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia e scritto al Congresso Usa e all’FBI. In effetti, contraddizioni e coincidenze sospette non mancano nella vicenda.

A cominciare da quella strana domanda che Maurizio Mazzella, amico di Giulio accusato di favoreggiamento, ha raccontato di essersi sentito rivolgere durante una perquisizione la mattina del 9 gennaio 2017, lo stesso giorno dell’arresto degli Occhionero, dagli agenti del CNAIPIC (Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche) della Polizia Postale: “Chi è il vostro contatto nella Campagna Trump?”. Domanda a cui quel giorno non fece nemmeno caso, ma che nei mesi successivi, alla luce degli sviluppi del Russiagate, gli tornò in mente, insieme all’interesse mostrato allora dagli agenti per le attività e i rapporti di Giulio negli Stati Uniti. Lo stesso Occhionero, che non nasconde simpatie repubblicane, ne ha chiesto conto al procuratore capo di Roma Pignatone, senza per ora ricevere chiarimenti. Eravamo nel gennaio 2017, alla viglia dell’insediamento del nuovo presidente Usa, nel pieno della campagna di leaks riportati dai quotidiani americani sul Russiagate. Il 10 gennaio il sito BuzzFeed pubblicava il dossier Steele. In Italia, quello stesso giorno, per non aver informato i suoi superiori dell’indagine, veniva rimosso dal suo incarico il direttore della Polizia Postale Roberto Di Legami (il Tar del Lazio avrebbe poi accolto il suo ricorso), che tra l’altro era stato interpellato dal Guardian per un articolo sul caso Occhionero uscito sempre il 10 gennaio.

Nel 2018, tornato in libertà dopo oltre un anno di custodia cautelare in carcere, in una lettera alle commissioni del Congresso Usa che si occupano del Russiagate, all’FBI, e all’ambasciata Usa in Italia, nonché in un esposto alla Procura di Perugia, Occhionero denuncia il tentativo di intrusione nei server della sua società, Westlands Securities, situati negli Stati Uniti, effettuato durante la perquisizione del 5 ottobre 2016, davanti ai suoi occhi, dagli agenti del CNAIPIC. Di fatto, sostiene, la violazione dello spazio cybernetico americano. Ma denuncia anche che da successivi controlli sarebbe emersa un’attività continuata di hacking, da parte delle stesse autorità, almeno dall’aprile 2015 al febbraio 2016, effettuata tecnicamente impersonando l’identità digitale di Microsoft.

Di questi attacchi informatici, in particolare del tentativo del 5 ottobre di prendere il controllo dei server Westlands su territorio americano, Occhionero e Mazzella ritengono di informare il Copasir, nella persona dell’allora vicepresidente, il senatore Giuseppe Esposito, contattato in più occasioni nei mesi di novembre e dicembre 2016 da Mazzella, preoccupato per le implicazioni per la sicurezza nazionale e le nostre relazioni con gli Stati Uniti. Pochi giorni dopo sarebbe stato spiccato il mandato di arresto nei confronti dei fratelli Occhionero.

Giulio Occhionero ha denunciato i suoi accusatori alla Procura di Perugia, dalla quale è stato sentito a giugno 2017 e a gennaio e giugno 2018, per oltre 5 ore. Le indagini preliminari si sono concluse nell’ottobre scorso con la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del pm di Roma Eugenio Albamonte per omissione di atti di ufficio e falso ideologico, del consulente tecnico Federico Ramondino, accusato di accesso abusivo a sistema informatico, e di due agenti del CNAIPIC per omessa denuncia e falso.

Il sospetto avanzato da Occhionero nelle sue denunce alla Procura di Perugia e al Congresso Usa è che, anche con il caso EyePyramid, qualcuno abbia voluto far credere all’FBI di poter rinvenire elementi utili all’indagine sul Russiagate contro Trump, magari le stesse email hackerate dai russi, sui suoi server americani. La risposta a questa domanda potrebbe essere custodita nella rogatoria internazionale del gennaio 2017 con la quale la Procura di Roma ha chiesto e ottenuto di acquisire quei server (entrandone in possesso a maggio). Rogatoria il cui contenuto non ha però voluto produrre in giudizio nonostante la richiesta della difesa. Chiamato a testimoniare nel processo, il responsabile FBI dell’ambasciata Usa di Roma, Kieran Ramsey, ha comunicato attraverso un legale la sua intenzione di non presentarsi. Ma la sensazione è che molto di questa storia sia ancora da scrivere.

ARTICOLO AGGIORNATO IL 9 OTTOBRE 2019: rimosso il testo tra parentesi “e figura ancora oggi come funzionario dell’Autorità protezione dati dell’Ue, indicato dall’EBA, l’Autorità bancaria europea”, perché da noi erroneamente riferito al Joseph Mifsud di cui tratta l’articolo, mentre ci è stato segnalato trattarsi di un caso di omonimia. Ci scusiamo con i lettori e con i soggetti coinvolti.