Sempre più estese e approfondite le indagini su quello che in America è stato ribattezzato “Spygate” e sembra rafforzarsi ogni giorno di più la determinazione della Casa Bianca ad andare fino in fondo, a vederci chiaro sulle origini del Russiagate e sulla condotta dell’FBI e di altre agenzie di intelligence. La Campagna Trump è stata “spiata” e bisogna capire se nel farlo queste agenzie hanno rispettato leggi e procedure, se vi fosse un giustificato motivo, data l’estrema delicatezza del caso: un’amministrazione che decide di mettere sotto sorveglianza il candidato presidente prima, e il presidente eletto poi, della parte politica avversa. Il presidente Trump ha appena dato all’Attorney General William Barr l’autorità di declassificare i documenti relativi alla sorveglianza e a ogni altra attività sulla sua campagna, e ordinato all’intelligence community di “cooperare rapidamente e pienamente” con l’indagine dell’AG. Oltre all’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia Michael Horowitz, che sta revisionando la condotta dell’FBI sia nella richiesta del mandato FISA a sorvegliare Carter Page che nell’uso di informatori durante le prime fasi dell’indagine, sta lavorando “da settimane” John Durham, procuratore del Connecticut, che si sta concentrando sul periodo che precede il giorno dell’elezione e sull’operato non solo dell’FBI, ma anche delle altre agenzie di intelligence. In particolare, a Durham è stato chiesto di aiutare Barr ad “assicurarsi che tutte le attività di raccolta di informazioni relative alla Campagna Trump siano state rispettose della legge e appropriate”.
Come abbiamo già evidenziato nella prima puntata del nostro “Italygate”, le principali piste del Russiagate – il caso Papadopoulos-Mifsud e il dossier compilato dall’ex agente dei servizi britannici Christopher Steele – hanno avuto origine in Italia o vi sono passate, e questo chiama in causa il nostro Paese, il ruolo dei nostri servizi, all’epoca dei fatti sotto i governi Renzi e Gentiloni. Eppure, tranne un’interrogazione scritta presentata da due deputati del Pd sul ruolo di Mifsud e della Link Campus University fondata dall’ex ministro degli interni Vincenzo Scotti, e alcuni sporadici articoli sulla stampa nazionale, nessuno sembra interessarsene.
Ma a Washington la lente di ingrandimento sulle origini del Russiagate non fa che crescere e punta in tutte le direzioni. In una lettera indirizzata al segretario di stato Pompeo e ai direttori di CIA, NSA e FBI, l’intera intelligence community americana, il deputato repubblicano Devin Nunes, ex presidente della Commissione Intelligence della Camera, chiede di avere tutte le informazioni in loro possesso su Mifsud.
Lunedì scorso il Telegraph ha riportato che i vertici dei servizi segreti britannici (MI6, MI5) e uno stretto consigliere per la sicurezza della premier Theresa May erano stati informati del dossier Steele dal suo stesso autore pochi giorni dopo la vittoria di Trump, prim’ancora quindi che il presidente eletto ne venisse a conoscenza (il 6 gennaio 2017). Il che solleva qualche interrogativo sul ruolo di governi alleati degli Usa nella diffusione delle false affermazioni contenute nel dossier e su quali azioni abbiano intrapreso sulla base di esse e rispondendo a eventuali sollecitazioni da parte di agenzie Usa – non solo l’FBI. Cosa sapevano, in quei mesi, i servizi italiani, dato che anche da Roma è passato quel dossier?
Nunes è tornato alla carica due giorni fa, con una lettera al presidente Trump in cui suggerisce una serie di domande da rivolgere alla premier britannica: tra queste, se agenti di intelligence Usa abbiano informato le controparti britanniche dei contenuti del dossier o di ogni altra accusa di collusione tra la Campagna Trump e la Russia; se il governo britannico fosse informato di, abbia dato il permesso per, o abbia partecipato ad attività di sorveglianza e intelligence di qualsiasi governo nei confronti di membri della Campagna Trump; se attuali o ex agenti e funzionari britannici abbiano trasmesso informazioni, classificate o meno, alle controparti Usa riguardo presunti contatti tra membri della Campagna Trump e sospetti agenti russi; se da parte britannica sia stata fornita ad attuali o ex agenti di intelligence e funzionari governativi Usa una valutazione sull’attendibilità e le motivazioni di Steele.
Ma una delle domande riguarda Mifsud e ci riporta in Italia: il presidente Trump chieda alla May di “descrivere qualsiasi comunicazione o relazione che Joseph Mifsud, potenzialmente noto – scrive Nunes – anche come Joseph di Gabriele (un nome in codice che non suona molto british, ndr), ha avuto con l’intelligence britannica e ogni informazione in possesso del governo britannico riguardo i legami di Mifsud con qualsiasi altro governo o agenzia di intelligence”.
Chissà che simili domande non siano state già rivolte o non stiano per essere rivolte al governo italiano.
Intanto, è degli ultimi giorni la notizia dell’azzeramento delle seconde linee dei nostri servizi deciso dal presidente del Consiglio Conte. Ora, può ben darsi che si tratti di normale spoil system, del “vincolo di fiducia” che dev’esserci con il nuovo Esecutivo, ma dopo un anno circa dalla nascita del governo gialloverde, il caso ha voluto che la richiesta di dimissioni di quattro vicedirettori della nostra intelligence (due del Dis, uno di Aise e uno di Aisi) maturasse proprio nei giorni in cui Trump chiamava il nostro premier per discutere del dossier libico e una delegazione di congressmen Usa guidata dal presidente della Commissione Giustizia, vicino al presidente, incontrava alla Farnesina il ministro degli esteri Moavero Milanesi.
Si avvicina anche un’importante scadenza per un altro caso “italiano” che potrebbe avere a che fare con il Russiagate e di cui abbiamo già parlato nella prima puntata del nostro speciale: il caso “EyePyramid”. Sul tavolo della Procura di Perugia ci sono gli esposti dei fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero, condannati in primo grado a Roma per accesso abusivo a sistemi informatici, che accusano i loro accusatori di aver fabbricato il caso contro di loro. Denunciano un’intensa attività di hacking precedente persino alla notizia di reato, diversi tentativi di accesso ai server americani di Occhionero. I magistrati di Perugia hanno comunque ritenuto di avere elementi tali da chiedere il rinvio a giudizio del pm di Roma ed ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, per omissione di atti di ufficio e falso ideologico, del consulente tecnico Federico Ramondino, accusato di accesso abusivo a sistema informatico, e di due agenti del CNAIPIC, Ivano Gabrielli e Federico Pereno, per omessa denuncia e falso. L’udienza davanti al gup è stata fissata per il 17 luglio.
Molte le stranezze nel caso EyePyramid: a cominciare da quella domanda che Maurizio Mazzella, amico di Giulio accusato di favoreggiamento, si sente porre dagli agenti del CNAIPIC durante una perquisizione del 9 gennaio 2017 (alla vigilia dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca): “Chi è il vostro contatto della squadra Trump?”. Poi la rogatoria internazionale per i server di Occhionero su suolo americano, che la Procura di Roma non ha mai prodotto in giudizio; il rifiuto del responsabile FBI dell’ambasciata Usa di Roma, Kieran Ramsey, a testimoniare nel processo; la comune frequentazione della Link University da parte di molti attori del caso EyePyramid, dal responsabile sicurezza di Enav Francesco Di Maio, da cui ha origine la notizia di reato, al pm Albamonte, passando per l’ex capo della Polizia Postale Di Legami.
Intanto, a Washington sta emergendo sempre con maggiore chiarezza che sia l’apertura della prima indagine formale di controintelligence “Crossfire Hurricane”, il 31 luglio 2016, sia la richiesta di autorizzazione a spiare la Campagna Trump attraverso il consigliere Carter Page, avanzata dall’FBI alla Corte FISA il 21 ottobre, si basavano su false premesse, se non dei veri e propri pretesti – come ha concluso l’ex procuratore Andrew McCarthy su National Review. Nel primo caso, il presunto aiuto russo con le email della Clinton che Mifsud avrebbe prospettato a Papadopoulos, nel secondo il dossier Steele. Che l’FBI sia stata indotta in errore, dall’antipatia per Trump che i suoi agenti condividevano con i Democratici o dalle spifferate di intelligence amiche (soprattutto della Clinton), o che invece essa stessa, nei suoi vertici, sia stata co-protagonista di una fabbricazione, è da vedere. Ma entrambi questi filoni, come abbiamo visto e come vedremo, hanno avuto origine a Roma, o ci sono almeno passati.
Secondo quanto si evince proprio dal rapporto Mueller, l’FBI non ha mai avuto seri elementi che accreditassero l’ipotesi all’origine di tutto – cioè che la Campagna Trump fosse a conoscenza, e potenzialmente complice, del fatto che la Russia possedeva e intendeva diffondere le email hackerate al Comitato nazionale democratico (DNC), per danneggiare la Clinton e aiutare Trump – e quindi che giustificassero l’apertura di indagini e l’uso di strumenti investigativi così invasivi. Almeno non dagli incontri tra Papadopoulos e Mifsud, che invece l’FBI sostiene siano stati alla base della prima indagine formale aperta il 31 luglio.
Papadopoulos non sapeva niente delle email hackerate al DNC e probabilmente di nessun’altra email. Al di là della sua versione, non c’è alcuna prova che Mifsud gli abbia davvero parlato di queste email. L’FBI lo ha interrogato il 10 febbraio 2017, un paio di settimane dopo aver iniziato a interrogare Papadopoulos, e il professore ha negato di essere mai stato a conoscenza, e di aver mai parlato, nei loro incontri, di email in possesso dei russi.
L’indagine sui rapporti Trump-Russia è proseguita per oltre due anni, Mueller ha accusato molte persone, tra cui Papadopoulos, di aver mentito all’FBI. Eppure, non ha mai accusato Mifsud, evidentemente ritenendo di non avere motivi per dubitare della sua smentita e per pensare che potesse sapere qualcosa delle famose email.
A una lettura attenta del rapporto Mueller, non si arriva alla certezza che il misterioso professore fosse un agente russo. Mueller vi allude, scrive che Papadopoulos aveva ragione di crederlo, ma non afferma che lo fosse per davvero. Di certo, se lo era, un incredibile numero di personalità e istituzioni accademiche, politiche e di sicurezza occidentali con le quali era in stretti rapporti – e che guarda caso Mueller omette di menzionare nel suo rapporto – potrebbero essere state seriamente compromesse, una gigantesca falla nella sicurezza degli Stati Uniti e dei governi alleati. Ma Mifsud non è mai stato trattato come tale potenziale minaccia, né dall’FBI né da altri servizi occidentali.
Se non è un asset dei servizi russi, l’FBI e Mueller hanno però un problema nella loro narrazione. Perché nel suo rapporto il procuratore speciale suggerisce che lo sia senza in realtà affermarlo direttamente? Se fosse un asset di qualche intelligence occidentale, allora questo proverebbe che Papadopouls è stato adescato e incastrato, già nella primavera del 2016, molto prima dell’apertura dell’inchiesta formale Crossfire Hurricane.
La domanda quindi è: per chi stava lavorando, o con chi stava collaborando Mifsud quando entrò in contatto in modo tutt’altro che casuale con Papadopoulos, appena entrato a far parte della Campagna Trump?
La risposta potrebbe trovarsi a Roma, visto che è alla Link University che si sono incontrati per la prima volta, ed è sempre a Roma che il professore è stato visto per l’ultima volta prima di scomparire (secondo alcune ricostruzioni di stampa su suggerimento dei servizi segreti italiani) e dove ancora si nasconderebbe.
Da quanto rivelato di recente dal New York Times, l’attraente donna di nome “Azra Turk” in compagnia della quale il professor Stefan Halper ha incontrato Papadopoulos a Londra nel settembre 2016, presentandola come sua assistente di ricerca, era in realtà una agente dell’FBI sotto copertura. L’agenzia, riporta il NYT, l’aveva inviata a Londra nell’ambito dell’indagine di controintelligence aperta quell’estate sui legami Trump-Russia: voleva sul posto un suo investigatore qualificato per ottenere informazioni o anche solo come testimone nell’eventualità di un procedimento penale. Diverse risorse furono impiegate oltreoceano con i membri della Campagna Trump come target, ma “senza ottenere informazioni proficue”, scrive il giornale.
Papadopoulos ha di recente rivelato in una intervista che l’FBI chiese persino alla sua attuale moglie, Simona Mangiante, italiana, di indossare un microfono e intercettarlo. Già collaboratrice di Gianni Pittella al Parlamento europeo, la Mangiante conosce George nel settembre 2016 mentre lavora a Londra per Mifsud (conosciuto nel 2012 proprio grazie all’ex presidente del gruppo SD e ora deputato Pd), ma i due si incontreranno solo nel marzo 2017. Molte sono le avvenenti donne che da quando ho conosciuto Mifsud sono entrate nella mia vita, ha chiosato Papadopoulos testimoniando al Congresso.
Ma tornando alla Turk, se a settembre l’FBI stava ancora cercando di confermare con proprie risorse cosa Mifsud avesse rivelato a Papadopoulos, e comprendere la portata dei contatti tra i consiglieri della Campagna Trump e la Russia, ciò porta a escludere che il professore fosse una risorsa propria dell’agenzia e a ipotizzare che lo fosse magari di servizi alleati. Il che, tornando ad una delle domande che ci ponevamo già nella precedente puntata, avvalorerebbe l’ipotesi che l’FBI sia stata portata a sospettare una collusione fra Trump e Russia da informazioni e risorse di intelligence straniere.
Tuttavia, prima di essere interrogato dall’FBI nel gennaio 2017, non risulta che lo stesso Papadopoulos abbia mai raccontato ad alcuno che la Russia avesse email della Clinton – nemmeno ai suoi superiori della Campagna, che invece teneva aggiornati sui suoi colloqui con Mifsud. È solo dall’interrogatorio, nove mesi dopo il suo colloquio con Mifsud, che emerge per la prima volta che il materiale “dirt” su Hillary in possesso dei russi di cui gli avrebbe parlato il professore della Link consisteva in “migliaia di email della Clinton” (che abbia detto agli agenti ciò che volevano sentirsi dire?).
Ma non c’è alcuna prova che a Papadopoulos sia mai stato detto davvero qualcosa su quelle email e sulle intenzioni della Russia di diffondere informazioni dannose sulla Clinton. E nessuna prova che ne abbia mai parlato con qualcuno, compreso Alexander Downer. Il diplomatico australiano riferisce della sua conversazione di maggio con Papadopoulos oltre due mesi dopo, il 26 luglio. Quattro giorni prima WikiLeaks aveva cominciato a diffondere le email hackerate al DNC. Solo allora Downer si ricorda della conversazione con Papadopoulos, prima giudicata insignificante, e arriva alla deduzione infondata che Papadopoulos si riferisse proprio a quelle email quando gli aveva confidato che la Russia aveva materiale “dirt” sulla Clinton.
Ma con Downer, Papadopoulos non ha mai parlato di email. E né Downer né Papadopoulos hanno mai affermato che si sia parlato di email. Non risulta nel rapporto Mueller. Né si afferma che Mifsud abbia detto a Papadopoulos che la Russia intendeva diffondere attraverso un intermediario (WikiLeaks) informazioni dannose sulla Clinton, né che Papadopoulos abbia riferito qualcosa del genere a Downer. Né nel rapporto Mueller, né nella “Dichiarazione di Reato” depositata in relazione all’ammissione di colpevolezza di Papadopoulos, si afferma che Mifsud gli abbia detto cosa la Russia stava progettando di fare, e perché, con il materiale “dirt” sulla Clinton in suo possesso. E di nuovo: Mifsud ha ripetutamente negato di aver detto alcunché sulle email e Mueller non lo ha mai accusato di aver dichiarato il falso.
In ogni caso, le “migliaia di email della Clinton” a cui, secondo la versione di Papadopoulos, si riferiva Mifsud non erano quelle hackerate al DNC e diffuse da WikiLeaks a luglio, ma le migliaia di email del Dipartimento di Stato e della Clinton Foundation che la candidata quando era segretario di Stato aveva conservato nel suo server privato. Quelle del caso chiamato “emailgate”, su cui era in corso un’indagine dell’FBI e di cui i media parlavano ampiamente nelle settimane, tra marzo e aprile 2016, degli incontri tra Papadopoulos e Mifsud, quando nessuno dei due poteva sapere nulla delle email hackerate al DNC.
Dunque, l’errata supposizione di Downer che Papadopoulos si riferisse proprio a queste ultime email ha alimentato la teoria della cospirazione Trump-Russia nell’amministrazione Obama – prima al Dipartimento di Stato, poi a quello di Giustizia, all’FBI, e nell’intera comunità di intelligence.
Anche su questo passaggio Mueller è abilmente elusivo nel suo rapporto. Evita di citare sia Downer che Papadopoulos, non descrive cosa Papadopoulos ha davvero detto a Downer, ma cosa Downer ha capito che Papadopoulos avesse “suggerito”, lasciando intendere che la diffusione da parte della Russia, via WikiLeaks, delle email hackerate al DNC dovesse essere ciò di cui Papadopoulos aveva parlato a Downer, mentre non lo era affatto.
Il sospetto, dunque, è che l’enfasi sul ruolo di Papadopoulos sia servita all’FBI per coprire il credito dato al dossier Steele – l’altro elemento chiave all’origine del Russiagate che, come vedremo, passa anch’esso per Roma.
Nel giugno 2016 l’autore, o meglio il compilatore del dossier, si trova a Roma per riferire a “un contatto dell’FBI” con il quale aveva già collaborato in passato. E il 5 luglio, circa tre settimane prima della segnalazione di Downer, con l’approvazione della funzionaria del Dipartimento di Stato per gli affari europei ed euroasiatici, Victoria Nuland, l’agente Michael Gaeta, attaché legale dell’FBI all’ambasciata di Roma, vola a Londra, dove incontra Steele (nella sede della sua società: la Orbis), che gli mostra “da due a quattro pagine di brevi appunti”. Perché non l’agente di stanza all’ambasciata Usa nella capitale britannica? È molto probabile che fosse proprio l’agente Gaeta, da Roma, a gestire la risorsa Steele. Com’è ovvio, dopo aver ottenuto l’appoggio del Dipartimento di Stato e il via libera dell’FBI all’incontro, Gaeta non mancò di riportare cosa aveva appreso. “La nostra reazione immediata”, racconterà la Nuland, che aveva già ricevuto molti report da Steele su altre vicende, fu che dovessero “arrivare all’FBI”, che fosse “qualcosa su cui indagare”. A fine settembre o inizio ottobre, Steele è di nuovo a Roma, dove si incontra con altri quattro agenti dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia, in un luogo definito come “discreto”.
Dunque, conclude McCarthy, quando a fine luglio Downer riferisce della sua conversazione con Papadopoulos, l’amministrazione Obama è già al lavoro da almeno un mese, da quando cioè ha cominciato a ricevere i primi report del dossier Steele, sulla teoria che la Russia stava aiutando Trump, con la quale l’hackeraggio delle email del DNC veniva fatto calzare a pennello.
L’informazione di Downer, quindi da un governo amico, ha permesso all’amministrazione Obama di dare copertura a un’ipotesi investigativa che stava già perseguendo. Ma serviva il falso collegamento tra ciò che Papadopoulos aveva detto a Downer e l’hackeraggio e la diffusione delle email del DNC per giustificare l’apertura di un’indagine formale, Crossfire Hurricane, a copertura di quella di fatto già in corso. Peccato che lo fosse sulla base di un dossier falso, compilato da Steele e pagato da una società, la Fusion GPS, a cui il DNC e la Campagna Clinton avevano commissionato la ricerca di materiale compromettente sull’avversario, Donald Trump, durante la campagna elettorale. Ecco perché bisognava avvalorare, o meglio fabbricare un altro evento come innesco dell’indagine e perché oggi tutti gli ex responsabili dell’intelligence nell’amministrazione Obama cercano di smarcarsi dal dossier.
Non sorprende più di tanto che nell’Intelligence Community Assessment (ICA), le sue conclusioni sulle interferenze della Russia nelle elezioni del 2016, l’amministrazione Obama non abbia incluso il dossier Steele, che invece aveva usato eccome, per ben quattro volte, per ottenere dalla Corte FISA il mandato a sorvegliare il consigliere della Campagna Trump Carter Page. Perché? Perché tutti sapevano che le affermazioni contenute nel dossier non erano verificate. “Salacious and unverified”, lo definì lo stesso direttore dell’FBI Comey in audizione al Congresso.
Ma in questi giorni è emerso anche che, prim’ancora di avanzare la sua prima richiesta alla Corte FISA, l’FBI sapeva 1) che il dossier non era verificato e probabilmente nemmeno credibile e 2) che era stato compilato con uno scopo politico, danneggiare Trump, su commissione dei suoi avversari.
Circa dieci giorni prima che la Corte autorizzasse per la prima volta, il 21 ottobre 2016, la sorveglianza in base alle norme FISA, Steele fu interrogato da una funzionaria del Dipartimento di Stato, Kathleen Kavalec, che raccolse delle note dell’incontro poi passate all’FBI. Già da quel colloquio emerse che una delle principali affermazioni di Steele era un’invenzione. Nelle sue note inoltre la Kavalec avvertiva con chiarezza che Steele aveva ammesso che i suoi committenti erano “ansiosi” di far uscire le sue informazioni prima dell’8 novembre, il giorno delle elezioni. Insomma, avevano una scadenza politica, piuttosto che di intelligence. Anche da appunti e testimonianze del funzionario del Dipartimento di Giustizia Bruce Ohr è emerso che Steele aveva ammesso fin dall’inizio di “voler disperatamente” far perdere le elezioni a Trump, che stava lavorando per la sua avversaria e che considerava le sue informazioni grezze e non verificate. Ohr ha testimoniato al Congresso di aver avvertito di tutto ciò l’FBI e altri funzionari del Dipartimento già ad agosto 2016. Eppure, nel solo 2016 risultano dai documenti del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI ben 11 pagamenti effettuati dall’agenzia a Steele, alcuni dei quali dunque mentre stava già lavorando per la Fusion GPS alla ricerca di materiale compromettente su Trump.
Insomma, l’FBI sapeva che Steele aveva una motivazione politica e il giorno delle elezioni come deadline per rendere pubblico il suo dossier.
Mentre le procedure richiedono che le informazioni siano vagliate dal punto di vista della loro accuratezza fattuale prima di essere sottoposte alla Corte FISA, l’FBI si è ben guardata dal riportare questi “dettagli” nella prima “Verified Application” consegnata ai giudici, i quali furono deliberatamente indotti a credere che Steele fosse affidabile e che non fossero note “derogatory information” sul suo conto. In alcune note a piè di pagina, si limitava a ipotizzare che potesse avere motivazioni politiche, mentre ne aveva la certezza. Non solo, l’FBI ha continuato a includere le affermazioni contenute nel dossier anche nelle successive application per i tre rinnovi della sorveglianza – a gennaio, aprile e giugno 2017. Inoltre, ai giudici l’FBI disse anche di non credere che Steele fosse la fonte “diretta” dei leak del dossier arrivati ai media, mentre non solo molto probabilmente lo era, ma lo stesso Steele aveva detto alla Kavalec che stava intrattenendo relazioni con organi di stampa e che alcuni di essi avevano le sue informazioni.
Chi della intelligence community dell’amministrazione Obama ha continuato a “spingere” il dossier nonostante la sua inattendibilità fosse nota già prima che fosse usato, insistendo perché fosse incluso nell’ICA? Lo scaricabarile è iniziato: Comey lascia intendere sia stato il direttore della Cia Brennan. Brennan dice Comey. E se Steele non era la fonte “diretta” delle informazioni contenute nel suo dossier, ma solo il suo compilatore, chi erano le vere fonti del dossier?
Nelle sue note la Kavalec ha appuntato solo due nomi come “fonti”: l’ex agente russo, e primo viceministro degli esteri, Vyacheslav Trubnikov, e il consigliere del Cremlino Vladislav Surkov. Lo stesso Steele ha lavorato come investigatore privato per Oleg Deripaska, oligarca dell’alluminio noto per essere amico intimo di Putin. Tutto questo fa apparire il dossier Steele sotto una luce ancora diversa: che fosse un’operazione di disinformazione russa in cui le agenzie Usa sono cadute è un’ipotesi a questo punto “non del tutto speculativa”, ha osservato Barr. In tal caso, farebbe parte a pieno titolo dei tentativi di interferenza nelle elezioni e sarebbe l’unico vero elemento di collusione tra la Russia e uno dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016 – solo, non Trump.
Ma Steele si è avvalso anche di altre fonti? Una delle bufale contenute nel dossier è che nell’estate del 2016, al culmine della campagna, l’avvocato di Trump, Michael Cohen, si sia recato a Praga – entrando però da un altro Paese dell’area Schengen per far perdere le sue tracce – per incontrarsi segretamente con agenti russi e pagare gli hackers che avevano hackerato i server del DNC. Ma Cohen non è stato a Praga quell’estate, ha stabilito l’indagine Mueller. Come è finita allora nel dossier? Cohen era in effetti arrivato in Italia, a Roma, il 9 luglio 2016, per una vacanza a Capri con famiglia e amici (tra cui il musicista Steven Van Zandt), per poi ripartire dall’aeroporto di Roma Fiumicino il 17 luglio. E forse un altro Cohen (nome piuttosto comune) potrebbe aver preso in quel periodo un volo da Roma Fiumicino a Praga. Non la stessa persona, dunque, ma qualcuno può aver collegato il volo per Roma dell’avvocato di Trump con il volo di un suo omonimo da Roma a Praga. Sarebbe interessante forse chiedere all’ENAV, l’ente che gestisce il traffico aereo civile in Italia.
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