SPECIALE ITALYGATE/4 – I silenzi e le omissioni di Mueller, mentre Mifsud inizia a parlare con gli investigatori di Trump

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Il procuratore speciale Robert Mueller aveva avvertito che da una sua audizione al Congresso non sarebbe potuto emergere nulla di nuovo rispetto a quanto già scritto nel suo rapporto a conclusione dell’indagine sulla presunta collusione Trump-Russia per vincere le elezioni. Eppure, i Democratici hanno sperato fino all’ultimo in una scintilla che potesse riaccendere il fuoco ormai sopito del Russiagate, se non l’innesco per una proposta di impeachment, almeno nuove munizioni da sparare contro Trump durante la lunga campagna verso le presidenziali del 2020. Potranno continuare ad appigliarsi al fatto, ribadito dal procuratore Mueller, che il rapporto “non esonera” il presidente dall’accusa di ostruzione alla giustizia. Ma lo scopo delle inchieste non è provare l’innocenza, è determinare se esistano elementi sufficienti per una incriminazione. Come ha scritto su Twitter il senatore Rand Paul commentando l’audizione del procuratore, “Mueller needs to go back to law school. In America’s judicial system, no prosecutors ever, ever conclude innocence. They only decide guilt. Americans are presumed innocent if not found guilty!”

E come ricorda un editoriale di National Review, non è vero, come spesso viene raccontato, che l’unica cosa che ha impedito a Mueller di incriminare Trump sono le linee guida del DOJ secondo cui un procuratore non può procedere contro un presidente in carica. La realtà è che nemmeno lui, e lo scrive nel rapporto, ha raccolto elementi univoci tali da poter concludere se sia stato commesso o meno reato di ostruzione. Ma è “inappropriato per un procuratore speciale presentarsi e discutere della condotta di qualcuno, in questo caso il presidente degli Stati Uniti, che non è stato incriminato e nemmeno accusato di un crimine”.

Ok, tutti si aspettavano un Mueller riluttante. Ma peggio, l’audizione ha restituito al pubblico l’immagine di un uomo affaticato, stordito, confuso, balbettante sia nelle risposte che nelle non risposte, fino al punto da far dubitare del suo vero ruolo nell’indagine. Spesso a bocca aperta, con aria inebetita di fronte alle domande, ha più volte dato l’idea di non sapere gran ché del rapporto che lui stesso ha firmato. Queste alcune delle sue formule di risposta ricorrenti: “Non entrerò nel merito di questo”; “questo è fuori dal mio ambito”; “vi rimando al rapporto”; “mi attengo a ciò che è scritto nel rapporto”; “se è nel rapporto, è corretto”. Interrogato sulla Fusion GPS, la società che incaricò Christopher Steele di trovare materiale compromettente su Trump, Mueller ha risposto di “non intendersene”. “Può affermare con certezza che il dossier Steele non fosse parte di una campagna di disinformazione della Russia?”, gli ha chiesto il deputato Gaetz. “È fuori dal mio ambito”, la risposta. Stiamo parlando del dossier falso su cui l’FBI fondò la sua richiesta di autorizzazione, reiterata ben tre volte, a sorvegliare uno dei consiglieri della campagna.

Robert Mueller non ha davvero condotto l’indagine, è la conclusione a cui molti sono giunti assistendo all’audizione. Oppure, fare il finto tonto è stata un’abilissima strategia di dissumulazione per frustrare i tentativi dei congressmen di scoprire fonti, origini e contraddizioni dell’indagine.

Se dall’audizione di Mueller non è scoppiato nemmeno un petardo, qualcosa di potenzialmente esplosivo è emerso alla vigilia: il professor Joseph Mifsud, una figura centrale del Russiagate che ha fatto perdere le sue tracce dall’autunno del 2017, è ricomparso e sta collaborando con le indagini dell’amministrazione Trump sulle origini di quello che è stato ribattezzato “Spygate”, ha già parlato con il procuratore Durham e dichiarato di essere un asset dell’intelligence occidentale, non russa, e che gli fu espressamente richiesto di “agganciare” il consigliere della Campagna Trump George Papadopoulos.

L’ispettore generale del DOJ Horowitz e il procuratore Durham avrebbero entrambi già interrogato Mifsud (probabilmente in teleconferenza, ndr), ha rivelato a Fox News l’ex procuratore del Distretto di Columbia Joe di Genova.

Su The Hill, John Solomon ha riportato che “la squadra di Durham senza clamore quest’estate ha raggiunto un avvocato che rappresenta il professor Mifsud”. Si tratta dell’avvocato Stephan Roh, già raggiunto tempo fa dal Foglio nel tentativo di sapere che fine avesse fatto Mifsud. “Uno degli investigatori – scrive Solomon – ha detto a Roh che il team Durham voleva interrogare Mifsud, o quanto meno esaminare una deposizione registrata che il professore ha fornito nell’estate del 2018” sul suo ruolo nel Russiagate. Il che se non altro ci dice, come confermato a Solomon da una “fonte ufficiale”, che il procuratore Durham è determinato a comprendere se i soggetti privati e governativi che entrarono in contatto con la Campagna Trump nel 2016 “erano coinvolti in una inappropriata operazione di sorveglianza”.

Ma perché Mifsud è la figura centrale per capire le origini del Russiagate? Come ricostruito nelle scorse puntate del nostro speciale, è sulla base dei suoi incontri con Papadopoulos che l’FBI afferma di aver aperto, il 31 luglio 2016, la sua indagine formale di controintelligence sulla Campagna Trump denominata “Crossfire Hurricane”. Durante uno di questi incontri, infatti, Mifsud avrebbe informato Papadopoulos di aver appreso che i russi avevano del materiale “dirt”, compromettente, su Hillary Clinton, nella forma di “migliaia di email”. Papadopoulos avrebbe poi raccontato della rivelazione di Mifsud al diplomatico australiano Alexander Downer, il quale solo dopo la notizia dell’hackeraggio dei server del Comitato nazionale dei Democratici, nel luglio 2016, informa il Dipartimento di Stato Usa, che a sua volta allerta l’FBI.

È evidente la delicatezza della materia: l’Agenzia, criticata per aver dato credito al dossier Steele, tanto da citarlo a sostegno delle sue istanze dinanzi alla Corte FISA, si è sempre difesa sostenendo che tutto fosse partito proprio dai contatti Mifsud-Papadopoulos. Ma che succede se anche quei contatti si rivelano una fabbricazione? E quale effetto avrebbe sulla credibilità dell’intera indagine del procuratore Mueller?

Nel suo rapporto conclusivo Mueller cita i legami di Mifsud con la Russia e personaggi russi, lasciando intendere che il professore sia un agente russo, e riporta che interrogato dall’FBI nel febbraio 2017 ha negato di aver detto alcunché a Papadopoulos sulle email della Clinton. Nell’arco di oltre due anni, il procuratore ha incriminato molte persone, anche solo per aver mentito all’FBI. Eppure, non ha mai accusato Mifsud. Perché? Una domanda posta direttamente a Mueller anche durante l’audizione al Congresso dal repubblicano Jim Jordan: “Why didn’t you charge Joseph Mifsud for lying to the FBI?” “I can’t get into it”, non posso rispondere su questo, è stata la risposta del procuratore. “I’m struggling to understand why you didn’t indict Joseph Mifsud”, ha incalzato un altro deputato repubblicano, Devin Nunes, ottenendo da Mueller questa replica: “You cannot get into classified or law enforcement information without a rationale for doing it and I have said all I’m going to be able to say with regard to Mr Mifsud”. Evidentemente, deve aver ritenuto di non avere motivi per dubitare della sua smentita e per pensare che potesse sapere qualcosa delle famose email. A una lettura attenta del rapporto, infatti, non afferma che il misterioso professore fosse un agente russo, ma vi allude. Più cauto dell’ex direttore dell’FBI Comey, che in un recente editoriale sul Washington Post definisce Mifsud senza mezzi termini “un agente russo”.

Senonché Mifsud è un professore maltese di base a Roma e a Londra, con frequentazioni ai più alti livelli dei circoli diplomatici e di intelligence occidentali – relazioni che guarda caso Mueller omette di menzionare nel suo rapporto. È a Roma che conosce Papadopoulos, a un evento della Link Campus University diretta dall’ex ministro dell’interno italiano Vincenzo Scotti, che forma gli agenti di Cia, FBI, MI6 e dei servizi italiani – e da cui tra l’altro proviene l’attuale ministro della difesa Trenta. Dunque, se Mifsud era un agente russo, un incredibile numero di personalità e istituzioni accademiche, politiche e di sicurezza occidentali con le quali era in stretti rapporti potrebbero essere state seriamente compromesse, una gigantesca falla nella sicurezza degli Stati Uniti e dei governi alleati. Ma Mifsud in effetti non è mai stato trattato come tale potenziale minaccia, né dall’FBI né da altri servizi occidentali. Per quasi tutto il 2017, durante l’inchiesta Mueller quindi, ha mantenuto i suoi contatti con accademici, diplomatici e politici, ha concesso interviste, scambiato email con agenti FBI. Nel dicembre 2016, quando l’Agenzia era da mesi a conoscenza dei suoi contatti con Papadopoulos e si preparava a interrogarlo, si è recato a Washington per un incontro organizzato da un’associazione sostenuta dal Dipartimento di Stato. Nessuno si è mai preoccupato dei suoi legami con la Russia.

Se allora non è un asset dei servizi russi, l’FBI e Mueller hanno però un problema nella loro narrazione. Perché nel suo rapporto il procuratore speciale suggerisce che lo sia senza in realtà affermarlo direttamente? Se fosse un asset di qualche intelligence occidentale, allora questo proverebbe che Papadopoulos è stato adescato e incastrato, già nella primavera del 2016, molto prima dell’apertura dell’inchiesta formale dell’FBI Crossfire Hurricane.

Ed è proprio questo che, attraverso il suo avvocato, Mifsud si prepara ora a raccontare, o ha già raccontato, al team Durham. Mifsud, confida l’avvocato Roh a The Hill, era “un collaboratore di lunga data dell’intelligence occidentale”, non russa, e gli fu precisamente richiesto dai suoi contatti alla Link University e al London Center of International Law Practice (LCILP), due centri accademici legati ad ambienti diplomatici e di intelligence occidentali, di incontrare Papadopoulos a Roma, ad un evento del 14 marzo 2016. Evento a cui erano presenti, come racconterà lo stesso Papadopoulos, anche il renziano e clintoniano Gianni Pittella, il senatore del Copasir Giuseppe Esposito e il direttore della Polizia Postale (la cyber intelligence italiana) Roberto Di Legami. La stessa compagnia (Mifsud, Pittella, Di Legami, Esposito) di una precedente conferenza sulla sicurezza organizzata dalla Link al Senato l’11 settembre 2015.

L’idea di presentare il giovane consigliere di Trump ai russi, ha raccontato ancora l’avvocato Roh a The Hill, non arrivò da Papadopoulos o dalla Russia, ma dai contatti dello stesso Mifsud alla Link e al LCILP (da Scotti, o dal “caro amico” Pittella?). Pochi giorni dopo l’incontro di marzo a Roma, Mifsud ha ricevuto istruzioni dai suoi superiori della Link di “mettere in contatto Papadopoulos con i russi”, incluso il direttore di un think tank, Ivan Timofeev, e una donna che gli fu chiesto di presentare a Papadopoulos come nipote di Putin. Mifsud sapeva che la donna non era la nipote del presidente russo, ma una studentessa frequentata sia alla Link che al LCILP, e ha pensato che fosse in corso un tentativo per capire se Papadopoulos fosse un “agente provocatore” alla ricerca di contatti stranieri. È evidente, ha concluso Roh parlando a The Hill, che “non fu solo un’operazione di sorveglianza, ma una più sofisticata operazione di intelligence”, nella quale Mifsud si è trovato coinvolto.

Se confermato, sarebbe una vera e propria bomba, perché dimostrerebbe tre cose. Primo, che il contatto Mifsud-Papadopoulos, su cui si basa l’apertura dell’indagine dell’FBI Crossfire Hurricane, è stato fabbricato dall’FBI stessa o da servizi di intelligence alleati, italiani e/o inglesi, quindi che la Campagna Trump era nel mirino già molti mesi prima dell’hackeraggio dei server del Comitato democratico – a cui comunque le email di cui avrebbero parlato i due non potevano riferirsi. Secondo, l’operazione che ha visto coinvolto Mifsud è avvenuta sul territorio di Paesi alleati degli Usa, Italia e Regno Unito. A questo punto, inevitabile chiedersi: i servizi di intelligence, le autorità giudiziarie e i governi di quei Paesi (Procura di Roma e Governo Renzi) ne erano a conoscenza? Che ruolo hanno avuto in questa operazione? Vi hanno preso parte? E come? L’ex presidente della Commissione Intelligence della Camera Nunes ha di recente scritto una lettera al presidente Trump in cui suggerisce una serie di domande da rivolgere alla ormai ex premier britannica May, tra le quali di “descrivere qualsiasi comunicazione o relazione che Joseph Mifsud, potenzialmente noto – scrive Nunes – anche come Joseph di Gabriele (un nome in codice non proprio british, ndr), ha avuto con l’intelligence britannica e ogni informazione in possesso del governo britannico riguardo i legami di Mifsud con qualsiasi altro governo o agenzia di intelligence”. Terzo, l’intera indagine del procuratore Mueller e il suo rapporto finale vanno visti sotto tutt’altra luce. Non si trattava solo delle interferenze russe e della potenziale ostruzione alla giustizia da parte della Casa Bianca, ma anche e soprattutto di nascondere origini e fonti della bufala Russiagate. “There’s a reason why Mueller doesn’t really, after 40 million bucks, he can’t really tell us who Mifsud is, and stops short of calling him a Russian agent”, si è chiesto Nunes in una recente intervista. “Somehow, this Mifsud guy, if he really was a Russian agent, as James Comey has said recently, my God… You have FBI compromised, State Department compromised, Congress compromised. The list goes on and on, and on of the damage Mifsud would have done”.

Allora, il lavoro di Mueller andrebbe letto attraverso le sue evidenti omissioni e ombre inquietanti si allungano sulle origini del Russiagate: quando, e sulla base di quali fonti, l’FBI ha iniziato l’indagine sulla Campagna Trump?

Nel frattempo, buttando l’occhio in casa nostra, dopo l’arrivo alla direzione del Dis del generale Gennaro Vecchione, nominato dal premier Conte, come riporta Dagospia è fuga dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’organismo che sovrintende ai servizi segreti e ha sotto di sé Aise (sicurezza esterna) e Aisi (sicurezza interna): se ne vanno altre tre figure di vertice, tra cui il vice direttore Enrico Savio, che raggiunge Gianni De Gennaro, di cui era braccio destro, a Leonardo. Lo stesso De Gennaro ex capo della polizia e dei servizi per decenni punto di riferimento dell’FBI in Italia.

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