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SPECIALE ITALYGATE/7 – Barr a Roma sulle tracce dei pasticci italiani per incastrare Trump e aiutare Hillary: i casi Mifsud e EyePyramid

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Italia, Regno Unito, Australia e Ucraina. Da questi Paesi è passato, o addirittura è nato il Russiagate, disseminando tracce e indizi su cui poi l’FBI avrebbe dovuto indagare e i media costruire la narrazione del Manchurian Candidate eletto con l’aiuto di Putin. È anche sul ruolo dei servizi di intelligence, quindi, e dei precedenti governi di questi Paesi alleati degli Stati Uniti (in Italia i governi Renzi e Gentiloni) che si sta concentrando l’indagine del Dipartimento di Giustizia Usa sulle origini del Russiagate, ormai ribattezzato Spygate, e su tutte le attività investigative condotte sulla, o meglio contro la Campagna Trump nel 2016 – dopo che il procuratore speciale Mueller ha concluso la sua inchiesta senza aver trovato la “pistola fumante” della collusione. E i governi attuali di quei Paesi, come abbiamo anticipato nel giugno scorso, stanno cooperando. Già allora infatti il DOJ parlava di “un impegno collaborativo in corso” tra il team guidato dal procuratore Durham e “alcuni attori stranieri” sull’inquietante ipotesi che all’origine del Russiagate ci siano stati contatti – che definire impropri sarebbe un eufemismo – tra l’amministrazione Obama e servizi di Paesi alleati per fabbricare prove di collusione fra Trump e la Russia.

Mentre l’ispettore generale Horowitz si sta concentrando sulla condotta degli agenti FBI e dei funzionari del DOJ, il procuratore Durham sta indagando ad ampio raggio proprio sulle attività dei servizi di intelligence americani e stranieri, così come sul ruolo di organizzazioni e singoli non governativi.

Era solo questione di tempo. In questi ultimi giorni abbiamo avuto la conferma che i contatti tra l’amministrazione Trump e il governo italiano per chiarire il ruolo del nostro Paese – che abbiamo cercato di ricostruire in questi mesi con il nostro Speciale Italygate – sono arrivati ai più alti livelli politici, come dimostra la visita, non annunciata, dell’Attorney General William Barr in Italia della scorsa settimana.

Con chi si è incontrato venerdì scorso a Roma, probabilmente a Palazzo Margherita, dove ha sede l’ambasciata Usa? Barr, accompagnato da Durham, ha incontrato i vertici dei servizi e alti funzionari del governo italiano, ma riteniamo che almeno Durham possa aver preso contatti anche con rappresentanti del Ministero della giustizia e della Procura di Roma, competente sia per quanto riguarda la scomparsa del professor Joseph Mifsud, su cui torneremo, sia per la collaborazione – presente e passata – con FBI e DOJ.

Cosa può aver detto Barr ai suoi interlocutori? Il procuratore generale Usa ha presentato Durham alle controparti italiane e chiesto loro la massima collaborazione nella sua indagine. Dov’è Mifsud? Chi e perché ha voluto l’operazione nei confronti di George Papadopoulos, l’ex consigliere della Campagna Trump a cui venne riferito del materiale “dirt” su Hillary Clinton in mani russe, che fece partire almeno ufficialmente l’inchiesta dell’FBI?

Non sarebbe la prima volta che Barr arriva riservatamente in Italia. “È stato avvistato il 15 agosto scorso al Marriott Grand Flora Hotel di Roma”, scrive Politico. “Barr, in giacca e cravatta, era accompagnato da diversi collaboratori ed aveva una scorta consistente mentre veniva fatto entrare di gran fretta nell’albergo”.

Come confermato dal DOJ, per assicurarsi la collaborazione delle autorità dei Paesi coinvolti, il procuratore generale Barr ha espressamente chiesto l’aiuto del presidente Trump in persona:

“Come precedentemente annunciato dal Dipartimento di Giustizia, un team guidato dal procuratore John Durham sta indagando le origini dell’inchiesta di controintelligence sulla Campagna Trump per le presidenziali 2016. Durham sta raccogliendo informazioni da numerose fonti, compresi alcuni Paesi stranieri. Su richiesta dell’Attorney General Barr, il presidente ha contattato altri Paesi per chiedere loro di presentare il procuratore generale e Mr. Durham ai funzionari appropriati”.

“Il DOJ ha semplicemente chiesto che il presidente provvedesse alle presentazioni per facilitare l’indagine in corso, e così ha fatto”, conferma la Casa Bianca.

Accertate ormai le richieste di collaborazione da parte di Trump al presidente ucraino Zelensky (la telefonata del 25 luglio scorso oggetto della denuncia di un whistleblower e pretesto per l’avvio di una procedura di impeachment) e al premier australiano Scott Morrison, appare a questo punto improbabile, considerata la visita proprio di Barr, che il presidente Usa non abbia avanzato personalmente una simile richiesta anche al presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte. Con il quale, secondo le cronache, ha parlato al telefono il 5 settembre scorso (il giorno del giuramento del nuovo governo al Quirinale) e si è intrattenuto brevemente prima della cena di apertura del G7 di fine agosto a Biarritz. Poche ore dopo la chiusura di quel summit, come ricorderete, il tweet di endorsement all'”amico Giuseppi” da parte di Trump, a reincarico ormai certo. Un premio per la disponibilità dimostrata a collaborare con l’AG Barr?

Non sappiamo ancora per certo se l’Italia sia stata “l’epicentro della cospirazione”, come sostiene Papadopoulos, ma ora è certo che Barr e Durham stanno effettivamente collaborando con questi quattro Paesi (Italia, Regno Unito, Australia e Ucraina) sul loro ruolo nelle origini della bufala Russiagate. E questo spiega il nervosismo, anzi il panico a Washington. Le indagini di Barr e Durham stanno arrivando a meta. Dall’esigenza di reagire, in una corsa disperata contro il tempo, nasce il Kievgate – probabilmente di concerto tra i Democratici al Congresso e gli uomini della Cia ancora fedeli all’ex direttore Brennan – per denunciare come il presidente Trump sta usando i suoi poteri e la diplomazia Usa per assicurarsi un indebito vantaggio elettorale. Qualcosa però non torna, il doppio standard è evidente. Finché si indagava sulla presunta collusione Trump-Russia, di cui Mueller non ha trovato prova, si trattava di difendere la democrazia americana dalle interferenze straniere nelle presidenziali 2016. Ora che si tratta di indagare sulla collusione, ancora presunta ma verosimile, tra l’amministrazione Obama, la Campagna Clinton e Paesi alleati, contro un candidato e poi presidente eletto, il rischio di interferenze straniere nel processo democratico non preoccupa più, si tratta di interesse politico personale di Trump che vuole “screditare” l’inchiesta di Mueller e i propri avversari.

Come il procuratore generale Usa ha ripetuto in diverse interviste e audizioni, la Campagna Trump, e poi il team del presidente eletto, sono stati spiati. Bisogna chiarire se vi fossero motivi legittimi per farlo, se la raccolta di informazioni fosse “lecita e appropriata”, secondo le leggi e gli standard del DOJ, se i metodi investigativi usati fossero appropriati, o se invece l’inchiesta di controintelligence fosse motivata da un’opposizione politica al candidato e poi presidente Trump. Ma bisogna anche chiarire se FBI e CIA si siano avvalse in qualche modo di “attività di servizi di intelligence stranieri”. Il sospetto è che queste attività siano state condotte su suoi collaboratori anche prima del 31 luglio 2016 – data di apertura formale dell’inchiesta di controintelligence – come il caso Mifsud-Papadopoulos lascia supporre.

MIFSUD – Come abbiamo ricostruito nelle precedenti puntate del nostro speciale, il diplomatico australiano Alexander Downer, amico dei Clinton, nel luglio 2016 fornisce la dritta che porta l’FBI, il 31 luglio, ad aprire formalmente l’inchiesta di controintelligence sulla Campagna Trump. Riferisce che durante un incontro a Londra il 10 maggio, Papadopoulos gli ha raccontato di aver saputo che i russi hanno materiale “dirt” su Hillary Clinton e sono pronti ad usarlo per aiutare Trump. Ma perché solo a luglio? Downer ricollega l’indiscrezione all’hackeraggio da poco denunciato dal DNC, attribuito alla Russia.

È il professore maltese Jospeh Mifsud, in un incontro sempre a Londra, il 26 aprile, a riferire a Papadopoulos che i russi hanno materiale “dirt” sulla Clinton in forma di “migliaia” di sue email. Si tratterebbe però non dell’hackeraggio dei server del DNC, avvenuto quasi due mesi dopo, ma delle email che l’ex segretario di stato ha fatto transitare sui suoi server privati. Papadoupolos conosce Mifsud il 14 marzo a Roma, ad una conferenza della Link Campus University, università fondata dall’ex ministro dell’interno italiano Vincenzo Scotti che forma gli agenti di CIA, FBI, MI6 e dei servizi italiani. Conferenza alla quale erano intervenuti anche Gianni Pittella (senatore del Pd, allora capogruppo SD al Parlamento europeo e fervente clintoniano, nonché “caro amico” di Mifsud), il senatore del Copasir Giuseppe Esposito e il direttore della Polizia Postale italiana Roberto Di Legami.

Non risulta al procuratore speciale Mueller che Papadopoulos abbia mai gestito email della Clinton o abbia riferito nulla alla Campagna Trump, non è stato accusato di aver complottato con i russi ma si è dichiarato colpevole di aver mentito all’FBI sulle date dei suoi contatti con Mifsud. Nel suo rapporto conclusivo Mueller cita i legami di Mifsud con la Russia e personaggi russi, lasciando intendere che il professore sia un agente russo, e riporta che interrogato dall’FBI nel febbraio 2017 ha negato di aver detto alcunché a Papadopoulos sulle email della Clinton. Nell’arco di oltre due anni, il procuratore ha incriminato molte persone, anche solo per aver mentito all’FBI. Eppure, non ha mai accusato Mifsud. Perché? Una domanda posta direttamente a Mueller anche durante l’audizione al Congresso dal repubblicano Jim Jordan. “I can’t get into it”, non posso rispondere su questo, è stata la risposta del procuratore.

Senonché Mifsud è un professore maltese di base a Roma e a Londra, con frequentazioni ai più alti livelli dei circoli diplomatici e di intelligence occidentali – relazioni che guarda caso Mueller omette di menzionare nel suo rapporto. Dunque, se Mifsud era un agente russo, un incredibile numero di personalità e istituzioni accademiche, politiche e di sicurezza occidentali con le quali era in stretti rapporti potrebbero essere state seriamente compromesse, una gigantesca falla nella sicurezza degli Stati Uniti e dei governi alleati. Ma Mifsud in effetti non è mai stato trattato come tale potenziale minaccia, né dall’FBI né da altri servizi occidentali. Per quasi tutto il 2017, durante l’inchiesta Mueller quindi, ha mantenuto i suoi contatti con accademici, diplomatici e politici, ha concesso interviste, scambiato email con agenti FBI. Nel dicembre 2016, quando l’Agenzia era da mesi a conoscenza dei suoi contatti con Papadopoulos e si preparava a interrogarlo, si è recato a Washington per un incontro organizzato da un’associazione sostenuta dal Dipartimento di Stato. Nessuno si è mai preoccupato dei suoi legami con la Russia.

Se allora non è un asset dei servizi russi, l’FBI e Mueller hanno però un problema nella loro narrazione. Se fosse un asset di intelligence occidentali, allora questo proverebbe che Papadopoulos è stato adescato e incastrato, già nella primavera del 2016, molto prima dell’apertura dell’inchiesta formale dell’FBI.

Di Mifsud non si hanno più tracce dal novembre 2017, ma attraverso il suo avvocato ha lasciato una deposizione audio al procuratore Durham, di cui ha parlato John Solomon su The Hill e di cui abbiamo scritto già nella puntata di luglio. Mifsud, racconta l’avvocato, era “un collaboratore di lunga data dell’intelligence occidentale”, non russa, e gli fu precisamente richiesto dai suoi contatti alla Link University e al London Center of International Law Practice (LCILP), due centri accademici legati ad ambienti diplomatici e di intelligence occidentali, di incontrare Papadopoulos a Roma il 14 marzo 2016. L’idea di presentare il giovane consigliere di Trump ai russi, ha raccontato ancora l’avvocato Roh a The Hill, non arrivò da Papadopoulos o dalla Russia, ma dai contatti dello stesso Mifsud alla Link e al LCILP (da Scotti, o dal “caro amico” Pittella?). Pochi giorni dopo l’incontro di marzo a Roma, Mifsud ha ricevuto istruzioni dai suoi superiori della Link di “mettere in contatto Papadopoulos con i russi”, incluso il direttore di un think tank, Ivan Timofeev, e una donna che gli fu chiesto di presentare a Papadopoulos come nipote di Putin. Mifsud sapeva che la donna non era la nipote del presidente russo, ma una studentessa frequentata sia alla Link che al LCILP, e ha pensato che fosse in corso un tentativo per capire se Papadopoulos fosse un “agente provocatore” alla ricerca di contatti stranieri. È evidente, ha concluso Roh parlando a The Hill, che “non fu solo un’operazione di sorveglianza, ma una più sofisticata operazione di intelligence”, nella quale Mifsud si è trovato coinvolto.

EYEPYRAMID – Ma c’è un altro caso che ci porta a Roma. Il caso Eyepyramid che ha coinvolto i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero. Condannati in primo grado per accesso abusivo a sistemi informatici, oggi accusano i loro accusatori di aver fabbricato le prove contro di loro. Denunciano un’intensa attività di hacking precedente persino alla notizia di reato, diversi tentativi di accesso ai server americani di Occhionero. Le loro denunce sono sul tavolo dei magistrati di Perugia, che hanno ritenuto di avere elementi tali da chiedere il rinvio a giudizio del pm di Roma Eugenio Albamonte per omissione di atti di ufficio e falso ideologico (un altro ex presidente dell’Anm sotto inchiesta a Perugia, anche se non se ne parla…), del consulente tecnico Federico Ramondino, accusato di accesso abusivo a sistema informatico, e di due agenti del CNAIPIC, Ivano Gabrielli e Federico Pereno, per omessa denuncia e falso. L’udienza davanti al gup è stata già rinviata due volte su richiesta della difesa: inizialmente fissata per il 17 luglio, è slittata prima al 27 settembre e poi a gennaio 2020.

Molte in effetti le stranezze nel loro caso: a cominciare da quella domanda che Maurizio Mazzella, amico di Giulio accusato di favoreggiamento, si sente porre dagli agenti del CNAIPIC durante una perquisizione del 9 gennaio 2017 (alla vigilia dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca): “Chi è il vostro contatto della squadra Trump?”. Poi la rogatoria internazionale per i server di Occhionero su suolo americano, che la Procura di Roma non ha mai prodotto in giudizio; il rifiuto del responsabile FBI dell’ambasciata Usa di Roma, Kieran Ramsey, a testimoniare nel processo; la comune frequentazione della Link University da parte di molti attori del caso EyePyramid, dal responsabile sicurezza di Enav Francesco Di Maio, da cui ha origine la notizia di reato, al pm Albamonte, passando per l’ex capo della Polizia Postale Di Legami.

Il caso Occhionero viene citato anche in una delle email declassificate di Nellie Ohr al marito Bruce, in cui sottolineava come non fosse una mera coincidenza che il 13 gennaio, il giorno in cui Kommersant riportava delle possibili dimissioni del russo Gerasimov (capo della divisione cyber dell’FSB), fosse “tre giorni dopo l’arresto degli Occhionero in Italia” e la pubblicazione del “dossier pioggia dorata” (il Dossier Steele), da parte di BuzzFeed. Che c’entra la vicenda Occhionero? A sorprendere è che Nellie Ohr non abbia avvertito la necessità di aggiungere alcun dettaglio sugli Occhionero, come se il suo interlocutore, il marito Bruce, ai vertici del DOJ, fosse già perfettamente a conoscenza del caso e della sua pertinenza al Russiagate.

Giulio Occhionero sostiene di essere finito in un disegno precostituito il cui scopo era quello di utilizzare i suoi server situati negli Stati Uniti per far rinvenire elementi di collusione fra la Campagna Trump e la Russia, magari piazzandovi le famose email della Clinton.

Lo scorso 24 maggio il presidente Trump ha autorizzato la declassificazione di tutti i documenti relativi alla sorveglianza e a ogni altra attività sulla sua campagna utili all’indagine e ordinato che “ogni componente della comunità di intelligence, o dipartimento e agenzia che includa elementi di intelligence, fornisca prontamente l’assistenza e le informazioni che l’Attorney General dovesse richiedere riguardo la revisione”. Sarebbero una decina i gruppi di documenti che potrebbero essere molto presto declassificati e divulgati, secondo quanto riportato da John Solomon su The Hill, e che “potrebbero aiutare a spiegare le recenti dichiarazioni del procuratore generale William Barr”, scrive Solomon. Uno di questi in particolare riguarda il ruolo svolto da governi alleati – Regno Unito, Australia e Italia – cui venne chiesto di assistere l’FBI nei suoi sforzi per trovare connessioni fra Trump e la Russia. Tick tack, tick tack

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