In questi giorni, sul web e sui social, impazzano le vignette ed i filmati satirici sui ladri disoccupati a causa della permanenza forzata degli abitanti delle case al loro interno. C’è qualcosa di vero, scherzi a parte. La profonda trasformazione delle abitudini quotidiane imposta dal coronavirus ha ricadute anche sulla microcriminalità che, in sostanza, deve adeguarsi alle mutate condizioni vita. Meno ladri d’appartamento, dunque, ma certamente aumentano le truffe ai danni di anziani ed abitanti delle zone più isolate, attraverso fantasiosi ma efficaci pretesti di effettuare prelievi a domicilio, oppure consegnare stampati informativi sul virus che mirino a farsi aprire la porta di casa dai già spaventatissimi italiani. È inevitabile conseguenza della persistenza dei fenomeni criminali anche in tempi di calamità collettiva, da sempre osservati anche dopo le catastrofi naturali, attraverso lo sciacallaggio. Anche nei periodi bellici esiste la borsa nera e l’accaparramento di beni di prima necessità da rivendere a prezzi astronomici si riscontra ovunque ci sia una guerra. Assistiamo, anche oggi, a fenomeni di speculazione commerciale, primi fra tutti quelli che riguardano le mascherine protettive e le soluzioni disinfettanti, che suscitano allarme sociale e sdegno diffuso per la particolare disumanità e rapacità di chi le pone in essere e ciò accade nonostante tali fatti possano persino configurare il reato di aggiotaggio, tuttora presente nel nostro codice penale ( art.501 c.p.). Ma, anche laddove tali comportamenti antisociali non configurino il reato commesso da chi altera il valore di mercato dei beni con accaparramenti ed altre manovre fraudolente, non possiamo negare che qualcosa sul mercato degli strumenti di protezioni da virus non stia andando per il verso giusto. Probabilmente manca una norma specifica che regoli la distribuzione controllata dei beni preziosi durante le emergenze nazionali o, perlomeno, una politica di prezzi imposti ed uguali in ogni parte d’Italia per tali articoli, che taglierebbe le gambe ad ogni tentativo di speculazione.
Ma siamo ideologicamente talmente lontani dall’occuparci di calamità, quando, in “tempo di pace”, ne avremmo tutto comodo ed abbondanza di mezzi, che, puntualmente, come si verifichi un disastro collettivo, spuntano fuori le carenze e le ambiguità normative. Siamo il Paese degli scongiuri, dello “speriamo non accada mai”, per cui, quando davvero accada un grosso guaio lo affrontiamo al momento, ossia qualcosa che rasenta l’improvvisazione creativa più assoluta. Ed aggiungiamo pure la vergogna del proliferare sui social di messaggi incontrollati e quasi sempre privi di fondamento, come altra disgrazia nazionale, che aggiunge solo panico al panico, e che non accenna a fermarsi, nonostante gli appelli di alcuni anche autorevoli singoli. Ma nei martellanti spot radio-televisivi sul coronavirus, non sarebbe male aggiungere di non dare ascolto e non rilanciare mai messaggi che non provengano dalle autorità, con tanto di link per controllarne l’autenticità. È un fenomeno, anche in questo caso, largamente osservato in occasione del fenomeno calamitoso più ricorrente nel nostro Paese, ossia in occasione dei numerosi terremoti che lo colpiscono periodicamente. Ogni volta, puntualmente, partono i messaggi catastrofisti che generano paura se non anche comportamenti pericolosi da parte di coloro che abboccano senza riflettere a quanto leggono sui social media. Anche in questo caso, il codice penale prevede un reato specifico (art. 658 c.p.) nel caso che taluno riferisca notizie false circa il verificarsi di disastri o l’incombenza di pericoli inesistenti, procurando allarme presso l’Autorità, assoggettandolo alla pena dell’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da 10 a 516 euro. A parte la mitezza della pena, ciò che rende spesso inapplicabile l’art. 658 del codice penale a chi diffonda sui social messaggi inutilmente catastrofisti è quando non si sia creato allarme presso l’Autorità, ma magari soltanto ad una parte della popolazione, che tuttavia non merita certamente meno tutela. Accade, dunque, che se un tizio chiama i vigili del fuoco per aver erroneamente ritenuto un incendio quel che era soltanto un camino fumante, possa essere denunziato, mentre uno che ammorba il web e/o i social con messaggi che diffondono il panico, possa cavarsela tranquillamente. È una delle questioni che meriteranno approfondimento ad emergenza finita, se non si riesce farlo ora, e, magari, una norma di legge specifica, perché troppo danno fanno certe catene telematiche che preannunciano disastri ancor maggiori, anche soltanto sulla stabilità emotiva di chi le ritenga attendibili. Non è questo il momento di suscitare panico, ma un bel po’ di colpa l’hanno anche i nostro governanti, che proprio ai social affidano troppe e quotidiane comunicazioni istituzionali, con l’effetto di fare assurgere a Twitter, a Facebook ecc. il rango di canale d’informazione ufficiale dello Stato.
La riflessione che propongo è la seguente, e la pongo con termini terra-terra: possiamo prendercela soltanto coi social media se a tali canali (tutti, e dico tutti, nati per fini di puro svago) sia proprio lo Stato ad affidare le comunicazioni importanti? Pensiamo soltanto al danno immenso che un falso profilo istituzionale possa arrecare diffondendo notizie artatamente falsificate, prima di venire chiuso e prima della smentita ufficiale. A tutti si raccomanda il buonsenso, e su ciò non si può certamente obiettare. Ma consideriamo anche che proprio il buonsenso, in condizioni psicologiche particolari, è il primo a venir meno. Poche cose bene dette da chi ha il compito di dirle, senza contraddirsi, nei momenti e nei luoghi giusti, con i giusti mezzi di divulgazione dovrebbero bastare. Chiedo troppo?