Questa volta Dibba ha proprio esagerato. Non può chiamare i giornalisti, “puttane”. È offensivo. Le prostitute, infatti, una loro onorabilità ce l’hanno. Si scherza. Non sono giornalista ma scrivo sui quotidiani, e quasi sempre in termini critici verso i grillini. Per di più, professore universitario, appartengo a una categoria in genere poco amata dai 5 stelle che, spesso non a torto, ci considerano corrotti, se non altro moralmente, corporativi e tendenzialmente pigri ed arroganti. Sarei quindi nella posizione perfetta per indossare una toga e recitare un discorso indignato, da perfetto
sepolcro imbiancato. E invece non ho nessuna intenzione di farlo e anzi penso che chi ritenesse infondate le critiche dei 5 stelle alla stampa meriterebbe il premio “Alice nel paese delle meraviglie” dell’anno.
Basta fingere di essere verginelle, da un versante e dall’altro. Il rapporto tra stampa e più in generale media e politica, dacché esistono elezioni e opinione pubblica, è sempre stato conflittuale, e probabilmente sempre lo sarà. Si potrebbe infatti comporre un’antologia degli insulti rivolti, fin dal XIX secolo, dai politici ai giornalisti, spesso in privato, ma non di rado in pubblico.
Quello di essere una ribaude (il francese ha una cinquantina di sinonimi per definire le prostitute) era l’accusa più frequente rivolta ai giornalisti francesi fin dal dal secondo Impero, dove effettivamente molti di loro erano corrotti, per certi versi più dei politici, nella Francia dell’epoca, il regno del pot de vin, la mazzetta, dei grandi scandali finanziari e degli omicidi politici.
I deputati e il ministro dell’interno utilizzavano i quotidiani per far scoppiare scandali e rovinare la carriera dell’avversario politico di turno, in un clima in cui vivevano gomito a gomito parlamentari, ministri, giornalisti, faccendieri, imprenditori e les amies o femmes galantes, che oggi chiameremmo escort e che spesso erano merce di
scambio tra direttori e politici. Notizie vere o false? Questo era l’ultimo dei problemi. Mentre i giornalisti sgraditi all’Eliseo, nella Quinta Repubblica erano (sono?) regolarmente spiati e minacciati da quella branca dei servizi dipendente esclusivamente dal capo dello Stato. Mitterrand, che ne fu vittima sotto De Gaulle, divenne a sua volta carnefice una volta diventato presidente.
Se la Francia era (?) la Sodoma del giornalismo, non migliore la situazione nei Paesi in cui più forte resta l’etica del giornalista come watchdog del potere; che, tuttavia, è una favola a cui non crederebbe neppure una bimba di tre anni. La storia del giornalismo britannico è infatti un continuo sliding doors tra tabloid, politica, impresa, servizi segreti, fino ai nostri giorni. Un po’ migliore la situazione negli Usa ma solo perché, diversamente che in Europa, il
giornalismo lì è veramente un business, che deve rispondere a una clientela e collocarsi sul mercato: l’imparzialità non è un dover essere collocato nelle sfere della eticità, è qualcosa che se tu non hai, porta i clienti a spostarsi su un altro giornale.
In Italia la situazione era più o meno simile a quella francese, ma il fascismo, nel tentativo di risanare, fece peggio: creò la figura del giornalista funzionario, militante, ideologizzato, dedito alla causa del Partito. E quando, con la Repubblica, le funzioni del Partito unico (il Pnf) si sono più o meno equamente distribuite tra i vari partiti, è nato un giornalismo pluralista sì, ma estremamente partitizzato.
Dagli “intellettuali dei mie stivali” (Craxi) alle “iene dattilografe” (D’Alema) agli “appecoronati” (Berlusconi), solo per ricordare alcuni degli improperi rivolti ai giornalisti dai leader di maggior spessore degli ultimi decenni, alzi la mano chi non si sia mai sentito aggredito da un giornalismo il cui obiettivo è mettere nel mirino l’avversario politico del direttore e/o della proprietà. Tutti lo sanno, questo è il gioco, da che mondo e mondo, e chi vuol recitare la parte del Tartufo verrebbe smentito un minuto dopo. Però, oggi, ci troviamo di fronte a due novità: 1) i politici erano sempre prudenti nell’aggredire i giornalisti, facendo caso di tessere alleanze con alcuni mentre stritolavano gli altri, perché, per quanto lo negassero, di loro avevano bisogno. Per l’intervista sul giornale o il commento favorevole e ancor più per il passaggio televisivo. Se non erano voti spostati (ma spesso lo erano) era un modo per acquisire una postazione sul campo di battaglia. Oggi, consoliamoci tutti noi che lavoriamo nei media, serviamo a ben poco. Il politico ha tutti i modi per raggiungere direttamente l’opinione pubblica, ammesso volessimo utilizzare questa categoria ottocentesca. Si chiama disintermediazione. Certo, poi, l’intervista o il commento a favore fanno sempre piacere: ma è solo uno spruzzatina di profumo.
2) la seconda novità è ormai la semplificazione estrema delle voci nel campo giornalistico. Come si è visto negli Usa, e qui in Italia dopo il 4 marzo, ma in alcuni momenti anche in Francia durante l’affare Benalla, l’intero fronte mediatico è schierato, salvo eccezioni, contro il governo, con argomentazioni che finiscono per essere tutte uguali, sia che vengano da voci conservatrici o da sinistra. Negli Usa il solo grande quotidiano che non sia, preventivamente, contro Trump è il Wall Street Journal, che spesso però non lesina bordate contro il presidente. Mentre alla simpatia di Fox deve fare fronte la totale blindatura di tutti gli altri canali, a cominciare da Cnn.
In Italia la situazione è persino peggiore: a parte La Verità, a tratti Libero e, su certi dossier Il Messaggero, tutti gli altri quotidiani si battono da giugno in una strenua battaglia contro il governo, finendo per confondersi tutti. Qualcosa di mai visto neppure ai tempi del “regime berlusconiano” (come i nuovi amici del Cav chiamavano i suoi governi). A fronte di giornali pienamente nemici, la Repubblica, ve n’erano infatti di amici (il Giornale, Libero) e altri come La Stampa e il Corriere della Sera cerchiobiottisti – anche se tendenzialmente ostili. Ma il Cav possedeva le televisioni: Mediaset e, al governo, almeno due reti Rai. Oggi invece l’esecutivo deve vedersela con l’ostilità di pressoché tutte le reti private e di quelle della Rai. Non è qualcosa di normale.
Qualcuno si chiede, anche in buona fede: se il governo gode, almeno stando ai sondaggi, di consenso e al contrario i giornali perdono copie e le trasmissioni tv audience, perché nessuno o quasi (ad eccezione de La Verità) entra nella fetta di mercato vuota, non quella pro governo ma almeno quella anti-anti? Ma perché il giornalismo europeo non ha quasi mai ragionato in termini di mercato, ma solo in quelli di lotta e di guerra politica. Altrimenti il crollo verticale di copie dell’ultimo decennio di tutti o quasi i quotidiani avrebbe dovuto portare al licenziamento di tutti i direttori. Il giornalismo europeo e quello italiano in particolare, non sono business: sono macchine politiche, cioè di influenza. E in questa logica, di guerra guerreggiata o di trincea (che è l’attuale), tu puoi persino decidere di perdere ancora più copie ma di mantenere questa postazione in vista del futuro rovesciamento di campo.
E non vale solo per la proprietà. Per questo i disegni di legge sull’editore puro, ventilati dai 5 stelle, mi sembrano, nella peggiore delle ipotesi, forzature giacobine e statalistiche, nella migliore, inutili. I giornalisti sono infatti quasi sempre dei volontari esecutori delle direttive del proprietario, che infatti non ha bisogno neppure di telefonare in redazione. Pierre Bourdieu parlava di un campo mediatico, un universo sociale che acquisisce una sua autonomia, indipendentemente da ciò che pensa chi ne fa parte e dalle sue storie politiche precedenti. Questo campo mediatico, è ormai, nella sua quasi interezza, progressista: cioè globalista, droit-de-l’hommiste (come si dice in Francia), liberista, libertario, europeista, open border, piuttosto anti-religioso (e certamente diffidente verso il cristianesimo). Rappresenta la voce delle “nuova classe” della globalizzazione, nata sulle ceneri del vecchio ceto medio e della vecchia borghesia, una classe minoritaria ma quantitativamente non ridotta: la sola rimasta a leggere i giornali e guardare i canali all news, ciò che consente loro una dignitosa sopravvivenza in termini di copie e di pubblico.
Il campo mediatico è naturaliter anti populista: e chi vuole porsi in un’altra prospettiva viene messo ai margini, dove gli è consentito la parte della “voce fuori dal coro”, laddove il coro canta solo esclusivamente canzoni globaliste, più o meno intonate. In tal senso, sono straordinarie le somiglianze con quello che sempre Bourdieu chiamava campo accademico. Non è che la stragrande maggioranza dei professori nei Dipartimenti di scienze umane e sociali sia progressista; è il campo accademico che trasforma tutti coloro che ne fanno parte in progressisti. Chi presenta posizioni diverse non viene fatto entrare nel campo oppure, se per qualche ragione è riuscito a penetravi, viene messo ai margini e delegittimato.
Ma allora, se contano ormai cosi poco, perché Trump e i “populisti” attaccano così spesso i giornalisti? Perché sono i loro naturali avversari, perché aggredirli è poco rischioso e molto redditizio sul piano della polarizzazione (fondamentale nello stile politico populista) e perché essi rappresentano quella casta contro cui i populisti si scagliano. Cosi il cerchio si chiude: più i giornalisti fanno gli agit prop contro i politici, più questi li attaccano, più i primi reagiscono indignati. Ognuno recita la sua parte. Nessuno sapeva chi fosse Jim Acosta: ora lo sanno tutti. Lui e Trump (che ha fatto benissimo a riprenderlo con quei toni) sono alla fine molto più alleati di quanto non sembri.
Ci sarebbe materia di cui discorrere, anche sui giornali. Siamo pronti a scommettere che non lo si farà. Molto meglio, da parte degli organi corporativi della professione, scendere in piazza ricevendo pelose e ipocrite dichiarazioni di stima da quei politici che, en privée, stimano i giornalisti come li stima Dibba: ma non possono dirlo.