Una delle domande che molti si pongono, in questi giorni è la seguente: “Ma in Italia esiste ancora lo stato di diritto?” Molteplici le risposte, che spaziano da un fideistico “certamente!” al dubitativo e diffusissimo “Boh?”. Partiamo dalle basi. In linea di massima, ammesso che le linee di massima valgano ancora, le fonti del diritto italiano sono sempre state indicate schematicamente con una piramide, alla sommità della quale sono poste la Costituzione e le leggi costituzionali; subito al di sotto del dettato costituzionale, vennero inserite le leggi europee ed i regolamenti comunitari, poi, scendendo verso la base, rispettivamente la legge ordinaria (formale e materiale), le leggi regionali, i regolamenti ed, infine, le consuetudini ad indicare con queste le fonti giuridiche di minor autorevolezza ed applicabilità.
Ciò premesso, tralasciando le diatribe dottrinali sull’uso o abuso delle leggi costituzionali, che rimasero pochissime sino agli ultimi anni del secolo scorso, già potremmo chiederci se la Costituzione, definita entusiasticamente come la-più-bella-del-mondo soprattutto da chi non ne mai letto – neppure di sfuggita – alcun’altra e non sembra conoscere interamente e nei dettagli neppure la nostra, stia veramente al vertice della nostra piramide delle norme vigenti. Quale possa essere la risposta, probabilmente, il maggior elemento di confusione sta proprio nella struttura piramidale delle tante (troppe) leggi che ci governano, laddove un diffusissimo sentimento popolare tende a mettere ogni disposizione coercitiva sullo stesso piano perché bada alla sostanza, ossia alle conseguenze per chi non si adegua alla norma. Ebbene sì, signori, perché la legge è giusta coercizione dello Stato per la tutela degli interessi comuni. Anche su questo punto non sarebbe male approfondire ma oltrepasserebbe i limiti di questa chiacchierata, per cui mi limito a sottoporvi un semplice quesito: in una legge “giusta” devono prevalere le tutele dei diritti fondamentali o le sanzioni per chi viola tali diritti?
Probabilmente, in uno stato di diritto del tutto immaginario, la solenne elencazione nella suprema Carta di Stato dei diritti come patrimonio comune di tutti i consociati dovrebbe bastare a rendere tali diritti talmente scontati ed autorevoli da nemmeno suscitare l’ipotesi che possano essere compressi oltre misura se non negati del tutto. Non appare peregrina, sul punto, la considerazione generale per la quale se non si percepisce il senso dello Stato (quello con la “S” maiuscola) a nulla possono servire le leggi che ne provengano. In altre parole, come sostenuto da Cicerone a Machiavelli e molti altri, se lo Stato non viene percepito come una comune fratellanza di consociati che si sono dati delle regole, proprio tali regole, ossia le leggi, verranno percepite come un’imposizione dall’alto e nulla più. Già qui potremmo perderci in un vero fiume di teorie sociali che si dipartono poi in mille rivoli divergenti e dovremmo, almeno per completezza, persino scomodare i teorici del pensiero anarchico, inteso come estremo rifiuto dell’idea stessa di Stato, ma basterà riferirsi soltanto alla sopra citata struttura piramidale delle fonti del nostro diritto, perlomeno per capire se oggi abbia ancora un senso tale schematizzazione.
Se dovessi rispondere a quest’ultima domanda in modo draconiano, direi di no: non ha più senso. Nel nostro Paese, la vorticosa progressione degli eventi sociali degli ultimi cinquant’anni ha profondamente modificato, di fatto, la vera struttura della nostra nazione e siamo passati, per fare un esempio concreto, dall’enorme peso che ebbero, nell’ultimo trentennio del Novecento, i sindacati (che ricordo non essere mai stati fonti di diritto né, ancora tutt’oggi, nemmeno associazioni registrate), quando la consultazione delle parti sociali era unanimemente considerata essenziale ed ineludibile per presidenti della Repubblica e presidenti del Consiglio, alle curiose affermazioni del nostro attuale premier, Mario Draghi, il quale proprio ieri ha operato, almeno a parole, un rovesciamento delle regole del gioco.
A giudicare dalle recentissime e solenni affermazioni di Draghi, parrebbe essere il Parlamento ad aver l’obbligo di garantire la persistenza in carica del governo e non viceversa, ossia di conformare l’opera e la stessa legittimazione del governo al volere del Parlamento, comunque sia composto. Inutile rimarcare e sgolarsi a ripetere che i comitati tecnici scientifici non sono previsti dalla Costituzione ed altrettanto sconosciuti ad essa i super-commissari e le cabine di regia. Ormai anche noi ultimi poveracci che studiavamo sui testi di Costantino Mortati per l’esame di diritto costituzionale abbiamo calato le armi, le braccia e, talvolta, pure le braghe. La spaventosa gazzarra di norme che si accavallano e contraddicono tra loro per proporre qualche puntello giuridico di comodo per certi pesantissimi, provvedimenti di governo, inaccettabili e limitativi delle libertà, che credevamo insopprimibili, non può considerarsi una razionale applicazione del Diritto (mi si perdoni l’inveterata abitudine di scriverlo con la “D” maiuscola).
Siamo sinceri: tutto questo rincorrersi, smentirsi, aggiornarsi ad horas di sempre nuove e rutilanti statuizioni di un governo ormai egemone su ogni forma di parlamentarismo, appartiene a quello “stato di emergenza” che ben potremmo definire “Stato di emergenza”. Almeno così si ammetta che, a causa di questa emergenza, sia ammesso giocare sporco, mettendo da parte la nostra vecchia ed ormai patetica gerarchia delle fonti del diritto, per governare a braccio. Perché esattamente quello sembra stiano facendo: governano a braccio. Tutto ciò in nome di quello che, circa un annetto fa, io stesso battezzai scherzosamente come il principio del “pandemicamente corretto”, secondo cui è possibile ed ammissibile farsi beffa di ogni regola consolidata.
Stiamo vivendo tempi difficilissimi e non soltanto per il maledetto virus e per l’economia che va a rotoli; udiamo persino, non troppo distante dai nostri confini, forti e crescenti rumori di guerra, una guerra che potrebbe degenerare anche a causa di una diplomazia internazionale assai più debole di quella che precedette gli ultimi due conflitti mondiali. A proposito di guerra, sapete quale ricorrenza ci sarà il prossimo 16 marzo 2022? Saranno trascorsi esattamente ottant’anni da quando, nonostante l’Italia fosse già in guerra da quasi due anni, entrò in vigore il nostro codice civile, tuttora vigente. In piena guerra mondiale eravamo capaci di elaborare la massima legge civile, con un codice civile che rimane tra i più efficaci e longevi al mondo. Questo avveniva in piena guerra, per opera di un Parlamento che funzionava appieno, nonostante il regime fascista fosse al suo apice e senza inventarsi e derogare nulla di quanto non fosse previsto dallo Statuto Albertino, allora vigente come suprema Carta costituzionale. Una bella differenza eh? Altra gente, tutto sommato. Che Dio ci assista.