Mentre l’informazione internazionale è impegnata a compilare le liste di chi si congratula o meno con Joe Biden, la notte di Hong Kong si fa sempre più scura e nessuno pare voler disturbare il manovratore. L’ultima stretta mortale sull’ex regione autonoma (ma quante volte si dovrà morire prima di cessare di esistere davvero?) è la diretta conseguenza della normativa sulla sicurezza nazionale emanata lo scorso maggio da Pechino. In un uno-due che ha messo al tappeto quel che restava dell’opposizione parlamentare, quattro rappresentanti dello schieramento democratico – Kenneth Leung, Dennis Kwok Wing-hang, Alvin Yeung e Kwok Ka-ki – sono stati espulsi mercoledì dal Consiglio Legislativo (LegCo), dopo una risoluzione in tal senso del Comitato permanente dell’Assemblea del Popolo (il parlamento fantoccio cinese). L’accusa e la sentenza sono arrivate allo stesso tempo: la loro colpa sarebbe quella di aver promosso l’indipendenza di Hong Kong, rifiutando la sovranità cinese e agendo in collaborazione con forze straniere. Il riferimento è all’appoggio che, direttamente o indirettamente, i quattro avrebbero manifestato nei confronti dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act e delle relative sanzioni, approvati l’anno scorso dal Congresso americano. In segno di protesta i quindici membri restanti del fronte pro-democrazia hanno annunciato le dimissioni in massa, lasciando di fatto mano libera al regime in quella che ormai è una copia in miniatura della massima legislatura cinese, monopolizzata dai delegati cooptati dal Partito Comunista.
I quattro politici espulsi non rappresentano affatto l’ala più intransigente del movimento per i diritti civili né si sono mai espressi a favore dell’indipendenza di Hong Kong, limitandosi a lavorare all’interno delle istituzioni per difendere le prerogative che la Basic Law (la costituzione) assegna agli organi “rappresentativi”. Tanto è vero che spesso sono stati accusati dagli stessi attivisti di eccessiva moderazione. Ma ovviamente questi sono dettagli di scarso peso di fronte alla ferma volontà di Pechino di scardinare pezzo per pezzo i meccanismi dell’autonomia locale. Suonano ingenui a questo punto i richiami della diplomazia allo “stato di diritto” o al rispetto della formula “un Paese, due sistemi”: questi concetti sono stati da tempo svuotati di contenuto, complice anche la mentalità quintacolonnista di buona parte della stampa occidentale che, di fronte ai continui abusi del Partito Comunista Cinese (PCC), ha scelto il relativismo o il giustificazionismo. Ma anche quando non può esimersi dal denunciarne i soprusi, lo fa utilizzando categorie inapplicabili a regimi di questo tipo, dimostrando di non (voler) comprenderne la natura intrinsecamente criminale. È significativo, a tal proposito, che nel commentare i provvedimenti di espulsione si insista sul fatto che siano stati presi “senza passare per i tribunali” o “con effetto retroattivo”, come se questi formalismi giuridici – indispensabili in democrazia – avessero qualche significato in un sistema fondato, da settant’anni a questa parte, sull’arbitrio assoluto del partito unico, l’unica vera legge fondamentale vigente in Cina.
Nel quattordicesimo piano quinquennale, approvato dal Plenum del PCC due settimane fa, si prevede espressamente la “giurisdizione completa” su Hong Kong (e Macao) per il 2025. Questo annuncio non è altro che la conferma del piano di incorporazione dell’ex regione autonoma alla madrepatria. Hong Kong deve smettere di esistere come tale, Xi Jinping è sempre stato chiaro al riguardo, e il processo di smantellamento prevede come premessa necessaria l’eliminazione del movimento democratico, nelle piazze come nelle istituzioni. Dopo che la legge di sicurezza nazionale ha chiuso i conti con i movimenti di protesta, la fine dell’opposizione parlamentare e un Consiglio Legislativo totalmente addomesticato sono il passaggio successivo. I confini, anche fisici, tra Hong Kong e Pechino si stanno dissolvendo a una velocità impressionante, perfino per i più pessimisti, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza della società civile: dopo la libera stampa, gli attivisti e i parlamentari arriverà il turno degli avvocati, degli uomini d’affari, dei liberi professionisti. Nessuno può dubitarne.
Il capo dell’Esecutivo Carrie Lam (in pratica il prefetto di Pechino a Hong Kong), in una delle sue surreali conferenze stampa ha fatto sapere di ritenere il provvedimento di espulsione “necessario affinché i parlamentari comprendano quali sono i limiti della Basic Law”. Chiunque si candidi nel futuro, ha avvertito, “dovrà tenere a mente la nuova misura”. Nel 2016 le elezioni legislative videro la vittoria del fronte democratico con il 53 per cento dei suffragi, ma il sistema di attribuzione dei seggi garantisce di fatto la maggioranza ai rappresentanti pro-Pechino, indipendentemente dal risultato delle urne.
Fu proprio quella tornata elettorale ad alimentare le speranze di una nuova generazione di attivisti che entrò per la prima volta nelle istituzioni, tra cui i membri del Demosisto Party, protagonisti della rivoluzione degli ombrelli di due anni prima.
In soli tre anni quella generazione è stata ridotta al silenzio, costretta all’esilio o minacciata con il carcere. Scrive Laura Harth, rappresentante all’Onu del Partito Radicale Transnazionale, sul suo account Twitter: “Honk Kong è ormai un continuo di arresti e estromissioni politiche, minacce al personale pubblico, obblighi di giuramenti di fedeltà e delazione. Il mondo democratico agirà?”. Non l’ha fatto finora, non c’è motivo di pensare che le cose cambieranno. Il ministro degli esteri britannico Dominic Raab si è limitato in un primo momento a rilevare il danno alla “reputazione cinese” (sic!) derivante da questa nuova misura repressiva, anche se poi ha specificato che la stessa viola espressamente la Dichiarazione congiunta sino-britannica; a questa presa di posizione iniziale ha fatto seguito nella giornata di ieri un comunicato congiunto dei 27 membri dell’Ue in cui si chiede la reintegrazione dei politici espulsi, mentre gli Stati Uniti per bocca di Pompeo hanno ribadito la necessità di ulteriori sanzioni. Ma basta leggere gli editoriali del Global Times per capire fino a che punto a Pechino sia diffusa una sensazione di assoluta impunità: “Le dimissioni dei parlamentari dell’opposizione sono penose e ridicole. Ne pagheranno le conseguenze”. Da Hong Kong a Taiwan il passo è breve e, non a caso, il nuovo piano quinquennale include per la prima volta esplicitamente la modernizzazione dell’esercito (leggasi potenziamento dell’apparato militare) come obiettivo prioritario. Se pensiamo che tutto questo non ci riguardi, stiamo sbagliando di grosso.