Dove eravamo rimasti? Già, perché il Conte 2 sembra aver ripreso dal punto esatto in cui il governo Gentiloni era stato interrotto dalla sonora sberla presa dall’elettorato il 4 marzo 2018. Almeno nelle due politiche fondamentali che hanno caratterizzato i governi monocolore Pd della passata legislatura. L’interlocuzione in sede Ue sulla politica di bilancio è stata riallacciata sulla base di un assunto che ci siamo sentiti ripetere fino allo sfinimento: rispettiamo le regole, così torniamo protagonisti in Europa e recuperiamo la credibilità per chiedere di ridiscuterle e cambiarle. Non è accaduto nei cinque anni dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, non si vede perché dovrebbe accadere ora. Perché adesso in Europa e sui mercati “l’Italia gode di un prezioso capitale di fiducia”? Lo dicevano anche allora… e tutto ciò che gli è stato concesso è qualche zero virgola di flessibilità – dissipato in bonus, sussidi e assunzioni nel pubblico impiego – a fronte di centinaia di migliaia di clandestini fatti sbarcare nei nostri porti.
Si dice: ma ora con la crisi in arrivo anche in Germania, c’è maggiore consapevolezza della necessità di rivedere le regole del Patto di Stabilità. Dal giuramento del Conte 2 ai giorni della fiducia in Parlamento abbiamo assistito a un dibattito surreale: a sentire le dichiarazioni del premier, e persino del presidente della Repubblica, così come a leggere i titoli dei giornali sembrava che la riforma del Patto di Stabilità fosse a portata di mano e che comunque al nuovo esecutivo sarebbero stati concessi generosi margini di flessibilità sui conti (addirittura fino al 3 per cento di deficit) come ricompensa per lo scampato pericolo Salvini.
Peccato che negli stessi giorni dall’Europa arrivavano parole non più caute, ma di segno del tutto opposto. Parole che suonavano più o meno così: l’Italia conosce le regole, il nuovo governo è pro-europeo quindi ci aspettiamo che le rispetti. E cambiarle non è all’ordine del giorno. Flessibilità? Vedremo…
Presentando i suoi commissari, martedì scorso, la neo presidente della Commissione Ursula von der Leyen è stata inequivocabile: “Sul Patto di Stabilità vi è oggi un ampio consenso. Le regole sono chiare. I limiti sono chiari. La flessibilità è chiara”. E ancora: “Gualtieri viene dal Parlamento europeo, dunque conosce perfettamente il patto di stabilità e sa esattamente quali sono le regole che abbiamo stabilito in Europa. Gualtieri sa cosa ci aspettiamo nella prossima legge di stabilità”. Una presa di posizione giunta dopo che persino il presidente della Repubblica Mattarella si era esposto, per dare una mano alla sua creatura ancora in fasce, richiamando la “necessità di un riesame delle regole”. Sbam!
I resoconti della prima riunione informale Ecofin del ministro Gualtieri ad Helsinki sono impietosi. La discussione sulle regole è almeno iniziata sabato mattina… Macché! Più che una discussione, un monologo dell’Italia, visto che i suoi colleghi di Germania, Francia e Olanda non erano nemmeno presenti, erano ripartiti la sera prima.
Nemmeno dalla Francia, di solito più possibilista, è arrivata un’apertura. A una specifica domanda sulla possibilità di rivedere le regole di bilancio, il ministro dell’economia francese Le Maire ha risposto: “Sono molto prudente sull’idea di modificare le regole di bilancio: se c’è una cosa preziosa questa è il tempo, e se apriamo un dibattito sulle regole di bilancio parleremo solo di questo, sarebbe una discussione difficile, molto lunga e dall’esito molto incerto”.
Tanto incerto, che le letture del rapporto Thygesen sull’applicazione delle regole fiscali divergono. Per il vicepresidente esecutivo Dombrovskis, che sovrintenderà l’attività del suo sottocommissario Gentiloni, “stanno funzionando ragionevolmente bene, anche se si può sempre migliorare”. Se una discussione venisse aperta sulle regole, uno dei temi sarebbe la loro semplificazione e l’introduzione di automatismi nella loro applicazione, che tolga spazio alla discrezionalità politica della Commissione. Non c’è da stare sereni che sia l’esito migliore per i Paesi come l’Italia. “Bruxelles – scrive il Financial Times – si sta tirando indietro rispetto ai piani di riscrittura delle regole fiscali dell’Eurozona, dopo che i ministri dell’economia si sono divisi su come semplificare il quadro e sull’urgenza delle riforme”.
Si è parlato, sì, della necessità di promuovere nuovi investimenti pubblici, in campo ambientale e digitale. Si tratterà però eventualmente di una spesa intermediata da Bruxelles (e finanziata con nuove tasse a livello comunitario). Sussidi che andranno a riempire le tasche di quella particolare categoria di imprenditori, una fetta sempre più grande in Europa, che “fanno impresa” con i soldi dei contribuenti… Il cosiddetto “Green New Deal” sarà il tendone dietro cui giustificare nuove tasse (sia a livello europeo che nazionale) e la richiesta, già inoltrata dal nostro premier, di escludere la spesa per investimenti “verdi” dal calcolo del deficit ai fini del rispetto del Patto di Stabilità. A conferma che nell’Unione europea l’unica formula consentita di politiche pro-crescita è quella della pianificazione dall’alto e dal centro, dei piani quinquennali di sovietica memoria.
C’è pressing sui Paesi con i bilanci in ordine perché adottino politiche fiscali più espansive, perché spendano di più – Germania in primis. L’esortazione è arrivata anche dal presidente della Bce Mario Draghi, che da sempre non fa che ripetere che da sola la politica monetaria può poco, se non è accompagnata da politiche fiscali espansive nei Paesi che hanno margini di bilancio e riforme strutturali negli altri. E infatti, nonostante tutti i suoi stimoli, la Bce ha mancato l’obiettivo di un’inflazione vicina al 2 per cento (siamo inchiodati alla metà). L’unico effetto delle sue politiche è il deprezzamento dell’euro che fa giustamente infuriare Trump.
Dunque, l’Italia resterà con le mani legate, senza poter sviluppare alcuna autonoma politica di bilancio pro-crescita, né sul lato degli investimenti, né tanto meno dei tagli alle tasse. Qualche forma di flessibilità ci sarà probabilmente concessa (vedremo, approfondiremo, ha messo le mani avanti Dombrovskis), ma parliamo sempre di “zero virgola”, che libereranno risorse per interventi simbolici più che altro di natura assistenziale. Una percentuale? Ad oggi, scommetterei su un rapporto deficit/Pil tra l’1,8 e il 2 per cento, non superiore.
Il vero regalo di nozze al governo Pd-5Stelle è arrivato da Draghi, prossimo a lasciare Francoforte, ma potrebbe rivelarsi un boomerang, avendo sollevato una levata di scudi mai vista prima in seno al board Bce: la sua decisione di abbassare ancora il tasso sui depositi (ormai negativo, al -0,50 per cento) e di rilanciare un Quantitative Easing da 20 miliardi di acquisti di titoli al mese per un periodo indefinito ha incontrato una dura e ampia opposizione, oltre 10 dei 25 membri del Consiglio Direttivo, e scatenato una serie di inusuali dichiarazioni pubbliche dei governatori centrali di Germania, Olanda e Austria, tutte dello stesso tenore. Draghi, ha attaccato il governatore della Bundesbank Jens Weidmann dalla Bild, ha “oltrepassato il limite”, “un pacchetto di tale portata non era necessario”, anche perché se la congiuntura si è “raffreddata”, “la situazione economica non è veramente negativa, i salari salgono nettamente”. Parole identiche dal governatore olandese e da quello austriaco.
Ma il messaggio univoco lanciato dai tre è soprattutto l’impegno a far sì che “l’aumento dei tassi non venga inutilmente ritardato” e, quindi, che la Bce inverta la rotta il prima possibile. Un messaggio indirizzato ovviamente a Christine Lagarde, che presto succederà a Draghi. Anche perché, a opporsi al suo ultimo pacchetto di stimolo sono stati non solo i governatori del Nord Europa, ma anche quello francese François Villeroy de Galhau e il membro francese del Comitato esecutivo Benoît Coeuré. E la Lagarde, guarda caso, è anch’essa francese.
Anche sull’altro tema su cui i governi del Pd sono stati bocciati, e tuttora al centro delle preoccupazioni dell’elettorato, il governo Conte 2 riparte dal passato. Il trucco è sempre lo stesso: confondere tra migranti e profughi. La sinistra e i media liberal continuano a cercare di far credere ai cittadini che le nostre coste vengono raggiunte da un’ondata di profughi che siamo giuridicamente e moralmente chiamati ad accogliere. I dati ormai da un decennio dicono inequivocabilmente che non è così: raramente gli aventi diritto all’asilo raggiungono il 10 per cento degli immigrati soccorsi in mare davanti alle coste libiche (il 15 se consideriamo la protezione internazionale, riconosciuta in questi anni con criteri assai generosi). Nei restanti casi, tra l’80 e il 90 per cento, si tratta di immigrati economici entrati illegalmente in Italia (clandestini), pagando organizzazioni criminali e sfruttando leggi e convenzioni del mare (che però non sono state scritte per naufragi “organizzati”).
Fatto sta che, come titolava la Repubblica giorni fa, il ministro dell’interno tedesco Seehofer ora “tende una mano all’Italia”. La Germania è disposta a prenderne il 25 per cento (e una stessa quota la Francia). Ma il 25 per cento di chi effettivamente? Siamo sempre lì: il 25 per cento di chi ha diritto all’asilo, dei veri profughi, ovvero del 10 per cento, quindi il 2,5 per cento di quanti sbarcano. Ogni 100 arrivati, Francia e Germania ne prenderebbero 5. Si lascia intendere che con il nuovo governo qualcosa sia cambiato, ci sia più disponibilità dei partner Ue a farsi carico del problema, ma non è così. E infatti, scrive sempre la Repubblica, l’Italia vorrebbe “allargare la discussione a tutti i migranti e non solo ai richiedenti asilo”. Già, perché ciò che non viene chiarito al pubblico è che in Europa esistono da sempre tre posizioni: chi non vuole nemmeno la redistribuzione dei profughi (l’Ungheria, per esempio); chi è disposto ad accollarsi i profughi ma non ha mai nemmeno per un istante ipotizzato di prendersi gli illegali (Francia e Germania), che infatti ci vengono rispediti al confine nei modi più disumani; e chi fa entrare tutti, ci pagheranno le pensioni ma nel frattempo paghiamo noi (solo l’Italia). Simili meccanismi anche in passato hanno riguardato sempre e solo i veri profughi, cioè non più del 10 per cento degli arrivi. I restanti sono e resteranno problema nostro – ed è giusto che sia così. Perché gli altri partner Ue dovrebbero pagare per una politica open borders che è sola nostra e che non è mai stata, né mai sarà, europea?
Inoltre, bisognerebbe anche capire nei dettagli la tempistica della ripartizione tra i Paesi Ue “volenterosi”. Se infatti i trasferimenti in Germania e Francia avvenissero una volta completato l’iter e riconosciuto (o negato) l’asilo, allora le quote del 25 per cento sarebbero reali (sempre dei soli profughi). Ben diverso sarebbe se venissero trasferiti appena sbarcati. Infatti, l’Italia fa sbarcare sul suo territorio e registra tutti, poi ne trasferisce subito il 25 per cento. Ma se poi di questi alcuni, o persino tutti, non hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato o la protezione, Parigi e Berlino ce li rispediscono indietro.
Insomma, il ribaltone non sta nel fatto che la Lega sia all’opposizione e il Pd al governo al suo posto, ma che il nuovo governo abbia un orientamento in netto contrasto con quello dell’elettorato (già nel 2018 e ancor più oggi) sulle politiche più dirimenti del momento, come dimostra la totale continuità già restaurata dal Conte 2 con le politiche del governo Gentiloni su bilancio e sbarchi. Di fatto la batosta del 4 marzo è costata al Pd un solo anno sabbatico. Sta nel fatto che il Quirinale abbia preso in considerazione solo il dato numerico del Parlamento uscito dalle elezioni del 2018, ignorando completamente il dato politico incontestabile, e cioè che oltre il 50 per cento dell’elettorato aveva votato per una proposta politica euroscettica e anti-Pd, mentre oggi si ritrova l’opposto – essenzialmente grazie alle manovre di un premier non eletto che, di concerto con il Colle stesso, ha consegnato lo scalpo del Movimento 5 Stelle a Merkel e Macron.