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Ecco perché sulla protesta dei pastori sardi Salvini rischia l’autogol

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“Il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle”, ammoniva Svetonio, storico e biografo Romano.

Recentemente gli allevatori di ovini sono tornati sotto i riflettori a causa delle proteste per il prezzo del latte troppo basso. Un notevole calo della domanda del pecorino ha portato ad un abbassamento della valore di circa il 24 per cento: dai 79 centesimi al litro del luglio 2018 si è caduti ai 60 centesimi al litro del gennaio 2019. Per fare un veloce confronto, in Spagna il costo si aggira sui 69 cent/L, in Francia 67 cent/L e in Grecia 58 cent/L.

La richiesta di aiuto dei pastori è stata prontamente raccolta da Matteo Salvini, il quale è sempre stato storicamente vicino alle battaglie degli imprenditori ed agricoltori – in linea con la politica e la base elettorale della Lega. Il vicepremier, durante la presentazione del rapporto Agromafie 2018, è intervenuto a riguardo, manifestando la sua intenzione di voler aprire un tavolo al Viminale con i pastori sardi, al fine di trovare soluzioni: “Da 60 centesimi a un minimo di 1 euro al litro, è questo dove spero di arrivare questa sera e non mi alzerò dal tavolo sul latte fino a quando non lo ottengo”, ha dichiarato.

Ed è qui che il ministro dell’interno rischierebbe di fare un clamoroso autogol che potrebbe ritorcersi contro. Le cause sarebbero tre:

1) L’intervento diretto dello Stato nell’economia: Salvini, per far lievitare il prezzo del latte, avrebbe proposto l’acquisto di 67mila quintali di forme di pecorino da parte dello Stato, mettendo a disposizione 44 milioni di euro tra fondi centrali e regionali. Una misura dal profumo alquanto vintage, poiché un sistema simile fu applicato tramite la Politica Agricola Comune (PAC) sin dalla sua introduzione nel 1962. Brevemente: quando il valore di una commodity scendeva sotto una determinata soglia lo Stato comprava le eccedenze, conservando il tutto in siti di stoccaggio e reimpiegando la materia prima per altri scopi. Una misura gravemente deleteria per le casse dello Stato (soldi dei contribuenti), ostile verso i partner commerciali ed esclusivamente temporanea. Cosa succederà quando verranno tolti i fondi tra qualche anno?

2) L’idea del “piccolo è bello”: così Salvini non affronterebbe uno dei problemi chiave dell’agroalimentare italiano: tantissime, piccolissime (e bellissime) realtà spesso scollegate l’una dalle altre, drogate da sovvenzioni nazionali ed europee le quali non permettono l’innovazione e lo sviluppo meritocratico di mercato. Nel corso degli anni, la politica e la cultura locale hanno spinto sempre di più nella promozione dell’allevamento ovino e la creazione di microimprese: circa la metà del settore lattiero ovino italiano ha sede in Sardegna, e l’80 per cento delle aziende pastorali sarde produce latte esclusivamente per caseifici. Di conseguenza ci si è ritrovati un mercato extra-saturo di un unico prodotto (il Pecorino Romano) del quale c’è eccesso di offerta e dove ci si deve confrontare con una domanda alimentare umana rigida. In poche parole – noi persone non possiamo aumentare a dismisura il nostro consumo né di pecorino né di cibo in generale: possiamo fisicamente mangiarne solo una quantità limitata. E i consumatori sono spesso restii a cambiare le abitudini alimentari quotidiane, quindi c’è tantissimo formaggio che nessuno vuole comprare. Il risultato? Un crollo dei prezzi prima del formaggio, poi del latte. Come se non bastasse, la mancanza di istituzioni adeguate e network di supporto per lo sviluppo della competitività settoriale e regionale (ed è qui che bisognerebbe investire soldi) lasciano in balìa degli eventi queste realtà appena si affacciano sul mercato.

3) L’effetto “boomerang Pernigotti”. Se c’è una cosa che il ministro degli interni dovrebbe aver imparato dai suoi colleghi pentastellati, è proprio “l’effetto Pernigotti”. Come non ricordare i proclami e le apparizioni pubbliche di Di Maio a sostegno dei lavoratori della Pernigotti, ai quali stava per essere chiuso lo stabilimento? Settimane di slogan, tavoli di trattative e promesse le quali si sono concluse in un bel niente. Dopo tre mesi, i lavoratori della storica azienda sono stati licenziati e, sentendosi traditi, hanno fatto sentire la loro voce mettendo in cattiva luce il vicepremier a 5 Stelle. Salvini rischia proprio la stessa fine: nel caso in cui non riesca nel suo intento (forzare l’economia è sempre una cattiva idea), ne avrebbe solo pubblicità cattiva. Nel caso in cui invece riuscisse a “salvare” il settore, si ritornerebbe sempre alla domanda di partenza: cosa succederà tra 1, 2 o 3 anni quando non ci saranno più i fondi?

Qualcuno potrebbe criticare “ma è tutto calcolato, è tutto uno stratagemma studiato per raccogliere consensi facili in vista delle prossime elezioni.” E in effetti non avrebbe tutti i torti, Salvini così sta effettivamente aumentando il suo bacino elettorale. L’autogol però risiede nel fatto che questi toni da continua campagna elettorale rischierebbero di diventare logoranti: in primis perché tra pochi anni tutti i nodi arriverebbero al pettine (gli elettori non dimenticano, M5S docet), in secundis poiché lo zoccolo duro della Lega Nord è formato storicamente da liberali, imprenditori e/o diligenti governatori. Questi ultimi di fronte ad una deriva pro-stato, pro-spesa pubblica e anti-mercato potrebbero chiudere un occhio, ma per quanto tempo resisterebbero ancora?

In questo caso, anziché affidarci alle parole di Svetonio “il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle” bisognerebbe ammonire Salvini con un “il buon politico deve tosare l’elettore, non scorticarlo”.