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Su immigrazione, difesa e controllo dei suoi confini, l’Ue rischia il collasso. La lezione di Ferguson

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Mentre sui giornaloni e giornalini italiani va in scena una campagna a colpi di feticci contro il ministro “disumano” Salvini (e in rete l’hate speech ritorna ad essere free speech), si moltiplicano in Europa i segnali di un vero e proprio sisma che sta scuotendo l’ordine politico costituito, mutando paradigmi e alleanze, senza escludere l’esito fatale di una disgregazione dell’Ue sul tema dell’immigrazione. A dispetto dell’intesa sulle riforme sbandierata ieri dal presidente Macron e dalla cancelliera Merkel, a nome di un affaticato asse franco-tedesco, difficilmente il Consiglio Ue di fine giugno sarà quello della svolta, ma più probabilmente l’ennesimo esercizio di business as usual. Peccato che l’inerzia non giochi a favore del progetto europeo, come ha avvertito lo storico Niall Ferguson nel suo editoriale domenicale sul Times, di cui hanno parlato in solitudine Lorenzo Castellani e Marco Gervasoni, su List.

Scozzese, uno dei più autorevoli storici della nostra epoca, lontano anni luce dallo sterotipo dell’intellettuale, Ferguson ha da tempo ingaggiato una lotta senza quartiere contro il politically correct nel mondo accademico, che sta portando all’ammasso i cervelli anche nelle più prestigiose università anglosassoni. E’ uno che sa dire ‘ho sbagliato’, il che lo distingue dalla massa di intellettuali ed “esperti” a vario titolo che ci vengono solitamente propinati dai mainstream media. Sostenitore del Remain nel referendum sulla Brexit di giugno 2016, a dicembre dello stesso anno ha ammesso pubblicamente di aver sbagliato analisi, scusandosi con i lettori, e addirittura che la sua posizione era in parte condizionata dall’amicizia personale con l’allora premier britannico David Cameron. Non è certo un ammiratore dell’attuale presidente Usa, Donald Trump, ma ha sempre respinto con argomenti storici le analogie tra i populisti al potere oggi e i regimi fascisti e autoritari del passato.

Nell’editoriale di domenica scorsa sul Times, Ferguson ha scritto che il “melting pot” europeo sta per provocare un “meltdown” dell’Ue. Un gioco di parole per dire che il multiculturalismo, o meglio l'”immigrazionismo” giustificato in nome di un sogno multiculturale già fallito, sta portando al collasso il progetto europeo.

L’Ue sta affrontando una crisi esistenziale, innescata non dalla Brexit come si pensava, ma dall’immigrazione incontrollata. Lungi dal portare alla “fusione”, la crisi migratoria sta portando l’Ue alla “fissione”, mostrando la sua debolezza, la sua incapacità come istituzione, e quindi spingendo gli elettori a rivolgersi ai governi nazionali per una soluzione del problema. Ferguson scrive di essere sempre più convinto che “il tema dell’immigrazione sarà visto dagli storici futuri come il fatale solvente dell’Ue. Nei loro resoconti la Brexit apparirà meramente come un primo sintomo della crisi”.

Le chance che dal prossimo Consiglio europeo di fine giugno emerga una “strategia pan-europea coerente” sembrano “remote” e il rischio è che il ripristino almeno parziale dei confini nazionali appaia “una soluzione più semplice”, spalancando la porta al ritorno delle nazioni. Al ritorno delle nazioni è peraltro dedicato un intero capitolo di “Brexit. La Sfida”, scritto con Daniele Capezzone, con molti autorevoli contributi.

Quanto può reggere l’Ue, se si dimostrerà ancora incapace persino di riconoscere e difendere le sue frontiere, e se i governi nazionali saranno chiamati a gran voce dai loro cittadini a far valere le proprie, ovvero le frontiere interne? Se cioè, venissero meno due delle conquiste più apprezzate, la libertà di circolazione e la zona Schengen? Due crepe tali da far venir giù l’intero edificio.

Lo abbiamo già segnalato qui su Atlantico. Paradossalmente proprio i partiti “euroscettici”, che sono anche i fautori di una linea dura sull’immigrazione, sembrano svolgere il ruolo degli europeisti pragmatici, avendo compreso che se non c’è difesa e controllo delle frontiere esterne, è a rischio l’Unione stessa. Lo spettro, che emerge dalle tensioni laceranti di questi anni tra gli stati membri, è quello di una disintegrazione, oggi inimmaginabile ma che – la storia insegna – potrebbe arrivare anche rapida e improvvisa.

Per salvare il progetto europeo non si può eludere il tema caro proprio ai cosiddetti “sovranisti”. Una delle funzioni imprescindibili di uno Stato è il controllo e la difesa dei suoi confini. Non si tratta di cedere al nazionalismo e rinunciare all’inclusività, ma di decidere chi e a quali condizioni può entrare e divenire parte della comunità politica che si autogoverna in un dato territorio. Che sia a livello europeo o nazionale, non si può abdicare alla sovranità sui confini, perché ne va della tenuta stessa del patto sociale, quindi della coesione della comunità che vive all’interno di essi. Gli europeisti a quanto pare non riescono a comprendere che l’eventuale superamento o svuotamento della sovranità a livello nazionale non può significare superamento o svuotamento della sovranità tout court.

Ferguson individua alcuni fattori che sembrano giocare contro il “melting pot” in Europa e, quindi, contro il progetto europeo. Oltre alle attuali tendenze demografiche, la difficoltà, se non la impossibilità, di integrare gli immigrati dall’Africa subsahariana e dal Medio Oriente, per due motivi fondamentali. Si tratta per lo più di immigrati unskilled, privi di qualsiasi formazione e con scarse competenze, che difficilmente quindi potranno essere inseriti nel mercato del lavoro europeo, ma peseranno eccome su welfare e fiscalità. Inoltre, essendo la gran parte di essi di religione islamica, nonostante gli sforzi per fare dell’Europa un continente post-cristiano, la distanza culturale, tra sistemi di valori antitetici, è destinata a restare probabilmente incolmabile.

I partiti centristi e di centrosinistra che da settant’anni gestiscono il processo di integrazione Ue si sono illusi di poter garantire confini aperti e generosi sistemi di welfare e al tempo stesso veleggiare tranquilli verso una “ever closer union”. “Ma la realtà – come osserva Ferguson – suggerisce che è difficile essere una Danimarca con una società multiculturale. La mancanza di solidarietà sociale rende insostenibili alti livelli di tassazione e redistribuzione”. Oggi dovrebbe essere chiaro che non si possono avere insieme immigrazione incontrollata e Unione europea. Cercando di ottenere entrambe, il rischio è di dover comunque rinunciare alla prima avendo nel frattempo distrutto la seconda.

Le forze “populiste” e “sovraniste” avanzano ovunque in Europa, osserva Ferguson:

“Sono già al governo in qualche modo in sei Paesi Ue: Austria, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Italia e Polonia. Ma in tutta l’Ue sono 11 i partiti populisti con un consenso popolare superiore al 20 per cento, il che significa che i governi populisti potrebbero quasi raddoppiare”.

Il vero e proprio dominus della politica europea dell’ultimo decennio, la cancelliera Angela Merkel, che sul centrismo ha fondato il suo potere, è oggi assediata da destra, proprio sul problema dell’immigrazione, dal suo principale alleato, la CSU, e dalla minacciosa AfD.

Per una volta, o ancora una volta, è l’Italia – nel bene e nel male – il laboratorio politico. Ferguson vede nel governo dei “populisti” italiani il nuovo che si contrappone al vecchio ordine rappresentato dalla Merkel:

“In Italia vediamo un possibile futuro: i populisti della sinistra (il Movimento 5 Stelle) e i populisti della destra (la Lega) hanno unito le forze per formare un governo. La loro coalizione si sta concentrando su due temi: difendere il vecchio welfare (vogliono cancellare la recente riforma delle pensioni) ed escludere gli immigrati”.

Ecco quindi le conclusioni di Ferguson:

“Ero scettico rispetto alla tesi secondo cui Brexit significa lasciare una nave che affonda. Ma ora sto riconsiderando la mia opinione… gli eventi in Europa si stanno muovendo in direzioni che sembravano inconcepibili solo pochi anni fa”.

Insomma, la nave potrebbe davvero affondare.

Se il “melting pot” americano può in qualche modo essere salvato, “non ho una tale speranza per l’Europa”, osserva Ferguson.

“Nessuno che abbia trascorso del tempo in Germania dal grande azzardo della Merkel del 2015-16 può davvero credere che un melting pot sia in costruzione. E chiunque visiti l’Italia oggi può vedere come le politiche di questo decennio – austerità e confini aperti – abbiano prodotto un collasso politico. La fusione può ancora essere un’opzione per gli Stati Uniti. Per l’Europa, temo, il futuro è quello della fissione – un processo potenzialmente così esplosivo che potrebbe relegare la Brexit tra le note a piè di pagina della storia futura”.

Su List, Lorenzo Castellani avverte che “i crolli istituzionali possono essere repentini ed inaspettati”.

“Il passaggio dal caos all’ordine e viceversa sono generalmente due movimenti molto rapidi. Successe così a Mosca nel 1917 e nel 1991, a Berlino nel 1918 e nel 1933, e nella fasi finali della vita di ogni impero. Le fondamenta si sgretolano, il centro del potere politico collassa, il caso e gli episodi giocano un ruolo fondamentale tra il crepuscolo e l’alba del vecchio e nuovo potere. C’è nel realismo di Ferguson un avviso fondamentale che ogni pensatore dovrebbe tenere a mente e cioè che la storia può andare facilmente fuori controllo. Si palesano dei segnali e tutto improvvisamente si rompe. Chi continua ad ignorare volontariamente certi segnali, come gran parte del sistema dei mainstream media, mette in pericolo la sopravvivenza stessa di ciò in cui crede per tutelare il proprio piccolo fortilizio di certezze intellettuali. Se c’è una lezione di Niall Ferguson da riportare sul suolo italico è proprio questa: il motore della storia spinge verso direzioni alternative a quelle disegnate dai vecchi poteri ed è bene esserne consapevoli”.

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