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Il summit di Helsinki: fallimento o buon inizio? La Cina il rivale comune che potrebbe avvicinare Usa e Russia

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Cosa è realmente accaduto tra i presidenti di Stati Uniti e Russia a Helsinki? Di cosa hanno parlato, e cosa hanno concordato in privato, alla presenza dei soli interpreti? A questi interrogativi cercheranno di dare risposta gli storici, gli studiosi, mentre cronisti e opinionisti si accontentano di poter bollare il vertice come un “disastro”, una “vergogna”, addirittura un “tradimento” per le parole del presidente Trump sulla sua intelligence. Qui su Atlantico abbiamo subito segnalato l’errore (e tale dev’essere stato, se persino lui, così restìo a tornare sui suoi passi, ha ritenuto di fare marcia indietro), ma un conto è la conferenza stampa, tutt’altro l’esito del summit, cosa si sono detti e come si sono lasciati Donald e Vladimir.

Almeno in superficie non si intravedono grandi accordi, né concessioni reciproche, ma probabilmente non era realistico aspettarsi tanto. Nonostante le migliori intenzioni, infatti, nessuno dei due leader sembra ad oggi nelle condizione di farne (anche se di alcune proposte concrete da parte russa sull’Ucraina pare si sia parlato). Trump non può permettersi di muovere passi più lunghi della gamba e Putin conosce la situazione politica a Washington, si rende conto che una sua apertura rischierebbe di non venire contraccambiata.

Gli Stati Uniti non si stanno certo ritirando dall’Europa e dalla Nato, né sembra all’ordine del giorno una nuova Yalta per riconoscere alla Russia una sfera di influenza in Europa orientale. Al contrario, restano impegnati nel riorganizzare la loro presenza militare nel Vecchio Continente, potenziandola in Polonia e nei Paesi Baltici come deterrenza nei confronti delle ingerenze russe. Trump non ha aperto al riconoscimento della Crimea, come si temeva, né annunciato il ritiro dalla Siria. Non ha promesso di rinunciare alle difese anti-missile in Europa orientale, né di ritirare la sua opposizione a Nord Stream 2 o la decisione di fornire “armamenti letali” all’Ucraina, né di revocare le sanzioni.

La denuclearizzazione della Corea del Nord, il controllo dei rispettivi armamenti nucleari e la Siria (stabilizzazione, sicurezza di Israele e contenimento dell’influenza iraniana) sembrano gli unici terreni di cooperazione ad oggi praticabili. Putin ha concordato, come d’altronde già assicurato al premier israeliano, sulla necessità di far rispettare il cessate-il-fuoco del 1974 sulle alture del Golan. Nel sud della Siria saranno ammesse solo forze del regime di Assad, e non di Teheran, anche se Trump e Netanyahu vorrebbero il ritiro degli iraniani da tutto il Paese. Ma questo è tema per un altro articolo.

C’è un’altra domanda chiave da porsi: riusciranno Trump e Putin a far funzionare una relazione che entrambi sembrano volere fortemente, o la loro è una “storia d’amore” destinata a non essere consumata, per l’oggettiva complessità dei dossier che dividono i due Paesi, ma anche per la profonda diffidenza reciproca e l’ostilità dell’establishment politico e mediatico di Washington?

Se davvero Putin ha ordinato le ingerenze nelle presidenziali Usa del 2016 ha certamente raggiunto lo scopo di gettare scompiglio, alimentare le divisioni e destabilizzare la politica americana, ma al prezzo di aver legato le mani al presidente Trump nel perseguire un “reset” nelle relazioni Usa-Russia. L’intera agenda bilaterale rischia di restare ostaggio del Russiagate, come dimostra la conferenza stampa congiunta di Helsinki. Non c’è dubbio che la Russia sia in gran parte responsabile del deterioramento dei rapporti. D’altronde, da sempre Mosca cerca di indebolire e dividere il mondo occidentale. Il suo obiettivo non è l’integrazione nell’ordine basato sulle regole dell’Occidente, come qualcuno si illudeva dopo la fine della Guerra Fredda, ma ripristinare status e sfera di influenza perduti in epoca post-sovietica. Pochi dubbi però anche sul fatto che la resistenza anti-Trump a Washington stia soffiando sul fuoco ed esacerbando le differenze per fini di politica interna.

Insomma, le relazioni Usa-Russia sembrano destinate a restare congelate, almeno in superficie. Sotto i ghiacci però potrebbe muoversi lentamente e silenziosamente un sottomarino guidato da Trump e Putin in persona. Entrambe le parti si sono sforzate di sottolineare che si tratta dell’inizio di un processo. Un “buon inizio”: il riconoscimento che la Guerra Fredda è alle spalle e che è nell’interesse di entrambi i Paesi migliorare le relazioni e cooperare ove possibile. Tanto che il presidente Trump si è detto pronto a sopportarne tutti i costi politici: “Preferisco assumermi un rischio politico per perseguire la pace, piuttosto che mettere a rischio la pace per perseguire un interesse politico”. E infatti, nonostante le polemiche e il suo dietrofront, ha rilanciato, invitando il presidente russo a Washington per il prossimo autunno. Molto probabile che prima della fine di quest’anno i due leader torneranno ad incontrarsi.

Ma perché Trump è così determinato, tanto da apparire più disponibile e aperto al dialogo con Putin che con molti alleati europei, da sfidare il suo stesso partito, l’intero Congresso, e da alimentare il sospetto del Russiagate? La risposta dei complottisti e degli anti-Trump a prescindere è facile: è il “puppet” di Putin, il presidente russo ha qualcosa di compromettente su di lui, e tramano entrambi per dividere l’Ue e l’Occidente.

Al momento non sono emerse prove di collusione con il Cremlino, nonostante da oltre due anni le agenzie di intelligence e investigative dotate dei poteri e degli strumenti di indagine tra i più potenti al mondo (nonché di più di un pizzico di pregiudizio politico), e diverse commissioni del Congresso Usa, stiano setacciando ovunque (non dimenticate che la Campagna Trump è stata per mesi sottoposta a intercettazioni, prima e dopo il voto del 9 novembre 2016).

La spiegazione forse è più complessa. Va ricordato infatti che la politica di un “nuovo inizio” con la Russia non è una novità assoluta alla Casa Bianca. Come i suoi predecessori, Trump ritiene di possedere le capacità negoziali e diplomatiche per trattare con Vladimir Putin e arrivare a quel “reset” a lungo inseguito sia da George W. Bush che da Barack H. Obama (e dal suo segretario di Stato Hillary Clinton). Oggi sappiamo che i suoi due predecessori hanno ingenuamente sovrastimato le loro capacità. Soprattutto Obama, convinto che il suo carisma e le sue qualità personali avrebbero fatto la differenza, ha perserverato nell’errore, nonostante il fallimento del “reset” del 2009. Nel 2012, un microfono ritenuto erroneamente spento registrò il messaggio sussurrato nelle orecchie dell’allora presidente russo Medvedev e indirizzato a Putin: “Questa è la mia ultima elezione… Dopo, avrò più flessibilità” (si trattava di temi quali lo scudo anti-missile in Europa…). E la risposta di Medvedev: “Capisco, lo dirò a Vladimir, sono d’accordo con te”.

Eppure, la stampa mainstream, con poche eccezioni, celebrava l’apertura di Obama come una politica lungimirante, rivolta al futuro. Certo, Putin non aveva ancora invaso l’Ucraina e annesso la Crimea. Ma aveva già invaso la Georgia. Erano già stati uccisi, nel 2006, la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex agente-dissidente Litvinenko (a Londra). Erano i tempi in cui il candidato repubblicano Romney veniva sbeffeggiato, descritto come un vecchio arnese della Guerra Fredda, perché sosteneva invece che la Russia costituisse ancora la principale minaccia geopolitica per gli Stati Uniti. Sappiamo com’è andata a finire. Obama ha subito l’invasione dell’Ucraina e l’annessione della Crimea, l’intervento russo in Siria, senza nemmeno far valere la “linea rossa” da lui stesso tracciata sull’uso di armi chimiche da parte di Assad.

Insomma, come minimo altri due presidenti americani prima di Trump devono aver intravisto i vantaggi e le potenzialità di una cooperazione con la Russia almeno in alcuni ambiti. Non proliferazione, armamenti, terrorismo islamico – e per quanto riguarda Obama, l’aiuto di Mosca nel dossier nucleare iraniano.

Rispetto ai tentativi falliti del passato, oggi vanno considerate tre rilevanti differenze. Primo, il mutato status della Russia. Nell’ultimo decennio Putin è riuscito, grazie all’irrilevanza, alla pavidità e alle divisioni dell’Europa, agli errori e alle incertezze di Obama, a recuperare molte delle posizioni perdute a causa del crollo dell’Urss. In Georgia, Ucraina e Siria ha sfondato porte aperte. Da una parte la Russia oggi è più forte, non si può immaginare di farle digerire quello che nemmeno dieci o vent’anni fa si è avuto il coraggio di imporgli. Dall’altra, ha restaurato quanto possibile del suo status di potenza perduto negli anni ’90, è tornata a esercitare la sua influenza in Europa e rimesso piede in Medio Oriente. Forse oggi è consapevole che non ci sono più “porte aperte”, facili “avventure”, e che a prescindere dal riconoscimento formale e dalle sanzioni, nessuno è realmente intenzionato a strapparle la Crimea e a minacciare le sue posizioni in Siria o altrove. Dunque, se Mosca si “accontenta” del terreno recuperato, potrebbe porre fine al suo “avventurismo”, sentirsi pronta a trattare con gli Usa un nuovo equilibrio, una “Yalta 2.0”, e da player revisionista trasformarsi in potenza a difesa dello status quo.

Un’altra differenza importante è che mentre l’approccio dell’amministrazione Obama si è basato su concessioni preventive, come l’abbandono già nel 2009 dello scudo anti-missile in Europa voluto da Bush jr., in questi due anni l’amministrazione Trump ha attuato o implementato politiche in forte contrasto con gli interessi russi. L’aumento del budget del Pentagono e della spesa militare dei membri Nato. I piani di modernizzazione delle forze armate e dell’arsenale nucleare Usa. Le nuove sanzioni contro Mosca, l’espulsione di decine di diplomatici e la chiusura di consolati. Le forniture di armamenti “letali” autorizzate all’Ucraina. I raid in Siria. L’ingresso del Montenegro nella Nato e il via libera ai negoziati con la Macedonia. E last but not least la nuova politica energetica: a Helsinki Trump ha chiarito che l’America vuole competere con la Russia sul mercato europeo del gas, il che significherebbe limitare l’influenza di Mosca e ridurre la sua principale fonte di reddito. Tutte politiche volte a ristabilire la credibilità della deterrenza Usa e Nato, in un’ottica di confronto e contenimento, ma anche, nel caso di una ripresa del dialogo, ad accrescere la leva negoziale nei confronti di Mosca prima di sedersi al tavolo con Putin. “I fatti parlano più forte delle parole”, ha scritto l’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili in un intervento su The Federalist, aggiungendo che al contrario “l’amministrazione Obama ha compromesso la credibilità Usa nella regione che Putin considera il ‘cortile’ della Russia”.

La terza differenza sta nell’accentuarsi di due tendenze già in atto dai primi anni 2000. L’ascesa della Cina. Se con Deng Xiaoping e Jiang Zemin Pechino mirava all’integrazione nell’ordine economico e politico internazionale plasmato dagli Usa nel Secondo Dopoguerra, con Hu Jintao e ancor più oggi con Xi Jinping la sua ambizione è quella di sfidare la leadership americana, sostituirsi agli Stati Uniti alla guida del mondo proponendo un modello di capitalismo autoritario. L’ascesa di un nemico comune più grande che per ragioni diverse sia Stati Uniti che Russia hanno motivo di temere potrebbe mutare il modo in cui fino ad oggi hanno concepito i loro rapporti. Se negli anni ’70 il rivale strategico dell’America era l’Unione sovietica, e l’apertura alla Cina serviva a impedire che si saldasse un asse Mosca-Pechino – il “peggior incubo” del grande architetto di quella politica, Henry Kissinger – oggi che il rivale strategico degli Usa è la Cina, Washington deve evitare che la Russia finisca dalla sua parte e anzi fare in modo che diventi un partner nel contenerla. Da parte sua Mosca è consapevole che l’attuale partnership con Pechino – economica, energetica, anche militare – rafforzatasi dopo la crisi ucraina del 2014 e la reazione occidentale, nel medio-lungo termine può trasformarsi in subalternità. Tutti gli stati della fascia dell’Asia centrale (ex Repubbliche sovietiche), ricchi di risorse energetiche, potrebbero trovare più vantaggioso fare affari con la Cina e finire sotto la sua influenza.

La seconda tendenza sempre più marcata è la mollezza dell’Europa, potenza economica e commerciale che tuttavia non riesce a esprimersi a livello geopolitico come entità unitaria, per cui sembra sempre più calzante l’espressione di Metternich sull’Italia, “un’espressione geografica”. Perché Trump è così sferzante con gli alleati e amici europei? L’Europa non è d’aiuto quanto potrebbe esserlo, perché è un nano politico e militare, ma è una scocciatura dal punto di vista economico e commerciale (secondo i dati WTO, il dazio medio applicato dall’Ue è del 5,3 per cento contro il 3,5 degli Usa). Il presidente Trump, così come gran parte dell’opinione pubblica americana, ritiene ingiusti gli squilibri attuali nella relazione transatlantica – surplus commerciale, soprattutto tedesco, e oneri nel garantire la sicurezza comune. Sembra quasi invece che gli europei li ritengano elementi costitutivi dell’alleanza, ma se trovavano giustificazione in passato nella difesa dell’Europa dalla minaccia sovietica, oggi di fronte alla nuova sfida della Cina non sono più sostenibili.

C’è poi il ritorno della “questione tedesca”, la crescente egemonia di Berlino che ripropone l’incubo di un’Europa tedesca. Senza nemmeno il contrappeso di Londra dopo Brexit, la sua Ostpolitik rischia di spingere l’Europa verso orizzonti euroasiatici, come sottolineato anche da Kissinger nella conversazione di qualche giorno fa con il Financial Times. Una prospettiva certo non attraente: se le due sponde dell’Atlantico si allontanano, gli Usa diventano un’isola geopolitica, mentre l’Europa “un appendice dell’Eurasia”, alla mercé di una Cina che vuole restaurare il suo antico ruolo di “Regno di Mezzo”.

Inoltre, l’eccessiva apertura a un’immigrazione di origine islamica rischia di minacciare la coesione sociale dei Paesi europei, fiaccarli nella determinazione a difendere i valori dell’Occidente. Insomma, lo spettro di un’Europa post-cristiana, della cosiddetta “Eurabia”. Da questo punto di vista, agli occhi di Trump la Russia ortodossa di Putin sembra un partner più affidabile, per quanto sgradevole.

In conclusione, se dal punto di vista dei dossier e delle crisi che ancora dividono Washington e Mosca non sembrano esserci sostanziali passi avanti, piuttosto un congelamento, a Helsinki Trump e Putin potrebbero aver parlato la stessa lingua ad un livello più profondo, riguardo sfide e nemici comuni su cui cooperare e darsi una mano a vicenda nel medio-lungo termine. Anche la Russia ha interesse a fermare la corsa della Cina verso la conquista della leadership globale, perché ciò significherebbe perdere il controllo del suo “cortile di casa”, l’Asia centrale. Putin ha bisogno dell’America (e di Israele) in Siria, non è da escludere che si vada verso una “pax russo-americana”, mentre non ha più bisogno degli iraniani, i quali possono solo complicare le cose e creargli problemi con il mondo sunnita. Stati Uniti e Russia hanno anche un interesse comune nel frustrare le ambizioni di Berlino e Parigi rispettivamente a un’Europa tedesca o francese. L’incognita è a Washington. La politica del presidente Trump nei confronti della Russia di Putin non ha il sostegno del Congresso, ancor meno di quanto ne avesse Obama sull’Iran Deal, come ha osservato Walter Russell Mead. Ne prenderà atto, o insisterà mettendo in gioco tutto il suo capitale politico, come sembra intenzionato a fare?