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Superare i tabù della cooperazione allo sviluppo. Dove sono democrazia, rispetto dei diritti umani (e lo sviluppo)?

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Da tempo c’è bisogno di rivedere un importante settore di politica estera: la partecipazione del nostro paese alla cooperazione internazionale allo sviluppo. Fin dalla nascita questo istituto si fonda su un presupposto subito dimostratosi erroneo: una volontà di sviluppo e un impegno a realizzarlo in realtà assenti in molti dei paesi assistiti. L’equivoco di un obiettivo in effetti non condiviso – lo sviluppo – fa sì che in pratica quasi sempre la cooperazione internazionale sopperisca all’insufficienza, quando non l’assenza di iniziative dei governi locali, tuttavia affidando spesso ai loro ministeri la gestione delle risorse offerte, pur sapendo quante di queste risorse vengono sprecate per incuria, malgoverno e corruzione. Si spiegano così i risultati insoddisfacenti, insostenibili, esigui rispetto all’enormità dei capitali investiti, di cui nei decenni siamo stati testimoni: sia nel campo dei progetti di sviluppo veri e propri – finanziamento e realizzazione di infrastrutture, servizi, attività economiche… – sia in quello degli aiuti, definiti inizialmente d’emergenza e in seguito umanitari, per salvare vite umane all’insorgere di una crisi.

Per rimediare è necessario innanzi tutto, finalmente, subordinare gli aiuti a tangibili, consolidati progressi in democrazia, trasparenza e rispetto dei diritti umani. In secondo luogo è auspicabile preferire, ove possibile, alla cooperazione multilaterale quella bilaterale che meglio consente di verificare l’esecuzione dei progetti, di rinegoziarli e, se opportuno, sospenderli. Last but not least, bisogna superare la radicata convinzione che lo sviluppo dei paesi poveri derivi essenzialmente da mancanza di mezzi, quindi che si ottenga mettendo a disposizione dei loro abitanti tutto il denaro necessario e inoltre che spetti soprattutto ai paesi occidentali fornirlo (Stati Uniti ed Europa in particolare), perché il loro attuale benessere sarebbe il risultato di secoli di sfruttamento dei tre continenti tuttora in difficoltà e si manterrebbe grazie a una iniqua distribuzione delle risorse del pianeta.

La cooperazione allo sviluppo per l’Africa è un caso emblematico. Non è di altro denaro, privato o pubblico, che gli africani hanno bisogno per sconfiggere la povertà. Hanno bisogno di buon governo, per amministrare bene le loro risorse. Hanno bisogno di combattere il tribalismo, causa prima della corruzione e delle democrazie “imperfette” che vanificano i migliori progetti di sviluppo. Hanno bisogno di libertà, di riconoscere che ogni persona detiene diritti inviolabili, senza di che continueranno a sprecare vite restando fedeli a istituzioni tribali che legittimano l’assenza di diritti universali, le discriminazioni, le gerarchie fondate su status ascritti. Eppure al vertice UE-UA, svoltosi ad Abidjan a fine novembre 2017, è stato annunciato un nuovo, ennesimo “Piano Marshall” per l’Africa con un fondo di almeno 40 miliardi di euro e investimenti ulteriori, pubblici e privati, per un totale di 500 miliardi: questa la “nuova” strategia dell’Unione Europea per l’Africa, altri soldi, in sostanza, che si aggiungono alle decine di miliardi già normalmente stanziati dall’UE e dai suoi stati membri.

Il caso africano evidenzia poi un atteggiamento da cui l’Italia deve dissociarsi, sintetizzato nelle parole del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani che, nel tracciare alla vigilia del summit di Abidjan un bilancio negativo di dieci anni di politiche comunitarie rivolte all’Africa, ha detto che il loro fallimento è la riprova della scarsa capacità europea “di incidere sul futuro del continente africano”. È un atteggiamento che non ha  riscontri. Nessuno infatti pensa a “incidere” sul futuro dell’India, per esempio, di averne facoltà, o di qualsiasi altro paese non africano, né di essere responsabile dei loro successi e dei loro fallimenti. Invece non c’è ambito, privato e pubblico, in cui gli africani non vengano aiutati, assistiti, monitorati, guidati, educati, come se fossero incapaci di decidere di sé e da sé.L’Italia dovrebbe disapprovare questo “Piano Marshall” e progetti simili, nella prospettiva, fermo restando l’impegno di solidarietà in caso di crisi umanitarie, di abbandonare la “cooperazione allo sviluppo” in favore di investimenti in autentica cooperazione, vale a dire collaborazione tra partner pari per responsabilità, egualmente motivati a produrre ricchezza, occupazione, stabilità sociale, crescita economica in funzione di sviluppo umano.

Nel frattempo, poiché “il denaro pubblico non esiste, esiste soltanto il denaro dei contribuenti”, e poiché un governo ha quindi il dovere di garantire che ogni centesimo raccolto con le tasse “sia speso saggiamente e bene”, si vuole che un governo responsabile aggiorni annualmente i propri cittadini, cosa che finora non è successa, su quanto denaro ha destinato alla cooperazione internazionale allo sviluppo, come è stato speso e quali risultati sono stati ottenuti. Per quel che riguarda le agenzie dell’ONU – Fao, Unicef, Banca Mondiale, Acnur, Pam… – gli organi di cooperazione europei e altri istituti internazionali – Cpi, UA, Unaid, Oim, Hipc… – al cui bilancio l’Italia contribuisce, il governo dovrebbe informare i cittadini dei loro preventivi di spesa e rendiconti e relazionare sui fondi corrisposti a ciascuno di essi. Se già non è prevista, l’Italia dovrebbe chiedere al Parlamento europeo e all’Assemblea generale dell’Onu l’istituzione di una sessione annuale dedicata a riferire sull’attività svolta da questi organismi e sul ruolo svolto dai singoli stati membri.

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