Taiwan “isola del tesoro”: anche per questo Pechino la vuole

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Dietro lo slogan “Una sola Cina” c’è anche l’intenzione del regime comunista di impadronirsi di un patrimonio tecnologico di inestimabile valore. Da sole, le aziende taiwanesi sfornano circa il 70 per cento dei microchips del mondo

A differenza di quanto avveniva in precedenza, sta prendendo piede l’idea che Taiwan possa davvero diventare un casus belli tra Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti. Tutti sanno che gli Usa, pur non riconoscendo ufficialmente l’indipendenza dell’isola, sono tuttavia impegnati a difenderla qualora venisse attaccata dal gigante comunista.

Va pure notato, tuttavia, che tale impegno si colloca a livello verbale e non è supportato da un trattato formale. E questa è la conseguenza della visita di Nixon e Kissinger a Pechino nel 1972, che condusse a stabilire rapporti diplomatici ufficiali tra le due potenze. Mao Zedong e Zhou Enlai, però, chiarirono subito che la Cina è una sola. Andava quindi “sanata” la ferita inferta all’orgoglio nazionale, giacché Taiwan si definiva allora – proprio come adesso – “Repubblica di Cina”.

La leadership cinese non si è affatto accontentata di essere riuscita ad espellere Taiwan prima dall’Onu, e poi da tutte le organizzazioni internazionali. Vuole invece che venga considerata a tutti gli effetti una “provincia ribelle”, destinata a riunirsi, con le buone o con le cattive, alla “madre patria”.

L’opzione dell’annessione militare, a Pechino, non è mai tramontata. Se finora non si è realizzata è solo perché la Repubblica Popolare non si sentiva abbastanza forte da sfidare apertamente gli americani.

Si dà tuttavia il caso che negli ultimi anni, e in particolare con la presidenza di Xi Jinping, la situazione sia parecchio cambiata. La potenza bellica cinese – inclusa quella missilistica e navale – è cresciuta a dismisura, con la costruzione nel Mar Cinese Meridionale di una catena di isole artificiali create a scopi puramente militari. E le costanti proteste Usa non hanno avuto alcun effetto concreto.

Né i cinesi si preoccupano del fatto che i taiwanesi abbiano dato alla leader indipendentista Tsai Ing-wen la maggioranza assoluta dei voti e dei seggi in Parlamento. Dal loro punto di vista il Parlamento di Taiwan è illegittimo, poiché tocca a Pechino decidere chi deve governare a Taipei.

Si è visto, del resto, quanta importanza Xi Jinping e il suo gruppo dirigente attribuissero alla vittoria elettorale democratica a Hong Kong. In pratica nessuna, e infatti la ex colonia britannica è stata “normalizzata” a dispetto di tutte le (inutili) proteste occidentali.

Ma, come adombrato nel titolo di questo articolo, Taiwan è anche una vera e propria “isola del tesoro”. Avanzatissima dal punto di vista tecnologico, sul suo territorio si produce la grande maggioranza dei microprocessori (microchips) indispensabili per la costruzione degli apparecchi elettronici.

Per chiarire l’importanza di questo fattore, si deve solo ricordare che, da sole, le aziende taiwanesi sfornano circa il 70 per cento della fabbricazione mondiale di circuiti integrati. I loro prodotti vengono quindi acquistati da tutte le fabbriche che nel mondo costruiscono dispositivi hardware. Ivi incluse quella della Repubblica Popolare.

Con questo intendo dire che, dietro l’ostilità di Pechino nei confronti di Taiwan, non si cela soltanto lo slogan retorico “Una sola Cina”, ripetuto come un mantra dai dirigenti comunisti. C’è pure l’intento di impadronirsi di un patrimonio tecnologico di inestimabile valore.

Quando Donald Trump era presidente gli Usa avevano auspicato, per la prima volta in modo ufficiale, un “cambio di regime” a Pechino. Il neopresidente Joe Biden sembra invece assai più prudente, e impegnato più che altro a incrociare le lame con la Russia di Vladimir Putin.

Potrebbe tuttavia arrivare il momento in cui la pressione cinese su Taiwan diventerà concreta e insostenibile. Giacché l’isola, ovviamente, non è in grado di difendersi da sola (proprio come Hong Kong). Si vedrà allora se Biden sarà disposto a correre dei rischi militari per difendere la libertà. Oppure se ci toccherà una riedizione dell’interrogativo “Morire per Danzica?”, sostituendo il nome dell’isola asiatica a quello della città polacca.

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