Non è trascorso neppure un mese intero da quando, con tanto di inno e bandiera al vento, l’Ue celebrava il vaccination day, con una prima puntura offerta quasi in sincronia nei Paesi membri ai rispettivi pubblici televisivi; eppure già la grande operazione condotta dalla Commissione comunitaria a maggiore gloria della solidarietà europea si è arenata. Un vero peccato perché eravamo in testa nella gara a chi esauriva più rapidamente le dosi assegnate, se pur in forza di qualche decina di migliaia di vaccinazioni fatta agli amici degli amici; e, ora, faremo fatica a completare la seconda fase entro la fine di gennaio.
Non è detto che per il governo sia poi una notizia così brutta, perché, al ritmo seguito fino ad ora, il tanto celebrato obbiettivo di vaccinare il 20 per cento della popolazione prima dell’estate, non aveva alcuna realistica possibilità di realizzarsi, ne è riprova una piccola vicenda personale in tutto e per tutto contrastante con la posizione ufficiale. Esaurita la platea degli addetti ai servizi sanitari e degli ospiti delle Ras, proprio in quest’ultima settimana di gennaio avrebbe dovuto partire la campagna relativa agli ultraottantenni, dando per scontata la messa a regime dell’organizzazione relativa, basata sulla disponibilità dei medici di base. Bene, il mio medico, debitamente consultato, non ne sapeva assolutamente niente, nessuno lo aveva contattato e coinvolto, anche solo per compilare un elenco, tanto da consigliarmi di attendere un messaggio via e-mail.
La reazione governativa alla notizia dei ritardi nelle consegne è penosa, minacciando fuoco e fiamme, che poi si riducono tutte nel promuovere un’azione civile nei confronti delle aziende farmaceutiche, con un revival delle accuse di trarre profitto dalla sciagura dei popoli, accompagnata dalla promessa di potenziare la ricerca pubblica destinata a sostituire quella privata. La solita filastrocca, che non tiene affatto conto che la stragrande maggioranza delle conquiste farmaceutiche sono proprio avvenute in forza della ricerca privata americana, incentivata dal governo federale Usa, come ora, con riguardo alla confezione dei vaccini anti Covid-19, da Trump, sia pure per facilitare la propria rielezione. Solo che se qualcuno dovrebbe muoversi sarebbe proprio la Commissione europea, che ha trattato e concluso quei contratti di fornitura debitamente segretati, di cui lo stesso Arcuri, che li ha sottosegnati per l’Italia dovrebbe averne una copia.
Quel che conta è che la campagna di vaccinazione sarà più lunga di ogni previsione governativa, sconfinando oltre la fine del 2021 e ipotecando l’inizio del 2022, sempre che il diffondersi di varianti resistenti non costringa a ricominciare tutto da capo, ipotesi traumatizzante ma non da escludere a priori, sì da creare una bella differenza fra vaccini riprogrammabili rapidamente e non, come sembrano essere Pfizer-Biotech e Moderna. Una simile eventualità non potrà che rallentare in maniera determinante la realizzazione della nostra proposta di utilizzazione del Next Generation Plan, sempre che se ne riesca a fare una versione accettabile dalla Commissione europea, come a tutt’oggi non sembra proprio; tant’è che la maggior parte dovrà essere realizzata dalla coalizione uscita vincente dalle elezioni politiche del 2023.
Se, dunque, ci attende una lunga guerra di trincea, che travalica largamente la durata della legislatura, questo governo potrebbe fare un patto per poco più di due anni, ma già in partenza privo di alcun futuro certo, dato che è convinto di essere perdente ad un ricorso alle urne, tanto da evocarlo solo per spargere un po’ di terrore fra i banchi del Senato. Finora senza successo, ma per un motivo assai semplice, perché lo slogan con Conte o scioglimento delle Camere, è a doppio taglio: i responsabili o costruttori, che dir si voglia, non sono sicuri né che i loro singoli traslochi siano sufficienti a fermare le lancette dell’orologio del tutti a casa, col rischio di potersi ritrovare, come si dice, becchi e bastonati; né che i loro ultimi giorni coincidano necessariamente con quelli del Conte 2, tanto che all’orizzonte albeggia già un Conte 3.
Quest’ultimo nella versione ormai corrente dovrebbe nascere dalle dimissioni dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi, presentate stamattina, con un reincarico che dovrebbe uscire dal cappello di Mattarella. Il trucco c’è e si vede, anzi è rivelato al pubblico esplicitamente, cioè di poter ottenere domani quello cui si puntava oggi, un gruppo autonomo a Palazzo Madama sufficiente a continuare la navigazione. Resta una domanda: perché mai Mattarella dovrebbe far da sponda a una crisi cosiddetta “pilotata” sulla base della sola promessa da parte di Conte di far tornare i conti là dove non tornavano prima, tanto di aver prevenuto con le dimissioni una sicura sconfitta? Certo, Conte gli direbbe che ha in mente un discorso fenomenale, nel contenuto, si intende, non nella forma, perché come oratore l’avvocato del popolo se la cava maluccio, un nuovo “aiutateci” più pressante e toccante, contando di riscaldare quel Senato che la volta scorsa era rimasto un po’ freddo. Ma il sottinteso, che solo un Matterella estremamente compiacente potrebbe ritenere sufficiente, l’aver fatto provare al Senato il brivido di essere scampato per poco al suicidio, con una ultima possibilità di poterlo evitare; ma accompagnando quel brivido con un generoso reclutamento di ministri e sottosegretari, previo eventualmente un allargamento dell’organico del Consiglio dei Ministri, alimentato da posti e sottoposti agli improvvisati bagnini di salvataggio.
Non è detto che, presentate le dimissioni, le cose debbano andare così. Una volta che anche Italia Viva confidasse a Mattarella di essere disponibile ad un Conte 3, tutta la sua moral suasion si esprimerebbe nel ricucire la previa alleanza. Qui stava la reticenza di Conte ad una cosiddetta crisi pilotata, non solo perché non sarebbe programmabile e prevedibile in toto. Se tale da portare ad un reimbarco di Renzi nella maggioranza, significherebbe sia una sconfitta personale in quella sorta di mezzogiorno di fuoco cui stiamo assistendo; sia una rinnovata restrizione della sua area di manovra come detentore dei pieni poteri, in ragione di una spregiudicata forzatura della nostra carta fondamentale.
Certo, i nostri amici arroccati nei Palazzi romani ci perderebbero la faccia, ma, per quanto ripetano e giurino con una specie di mantra, sono degli incalliti professionisti del “mai dire mai”, cercheranno di vendere come un supremo sacrificio al bene del Paese l’aver perdonato Renzi, previo l’impegno solenne di fare il bravo bambino. Questo varrebbe senz’altro per Zingaretti, Di Maio & Co, i cui spergiuri, all’insegna di quell’arte nobile della coerenza dell’incoerenza, riempiono le pagine perse dei giornali; ma non per Conte, che si è creato l’idea di essere inaffondabile, col consenso costante del popolo che ogni sondaggio gli rimanda, tradotto dai suoi supporters parlamentari, 5 Stelle, Pd e Leu, in “Conte o morte”.
Conte potrebbe tirare diritto, aumentando il suo pressing sui senatori considerati più tentennanti, facendo ricorso in modo più o meno scoperto alla promessa di sistemarli comunque in una sua lista elettorale; tirare dritto, all’insegna del “o la va o la spacca”.
Quel che va bene a Conte va bene ai 5 Stelle: se lui è alla guida della loro lista possono ottenere una resurrezione elettorale; se lui è alla guida di una lista coalizzata possono, comunque, raggiungere una somma complessiva di tutto rispetto. Non è affatto lo stesso per il Pd, che, almeno a livello ufficiale, fa proprio quella sorta di ultimatum, perché, comunque vada, ha tutto da perdere. Se il governo va avanti, come Conte 3, il Pd è destinato ad un declino progressivo, da comprimario a comparsa, peraltro, condividendo tutti i rischi di una navigazione pericolosa: il piano vaccinale è in grave ritardo, non senza una qualche responsabilità della mitizzata Commissione europea; il progetto Next Generation Plan è ancora in fase di faticosa gestazione, che, comunque, potrà cominciare ad essere implementato non prima del 2022 avanzato, poco più di un attimo prima delle elezioni politiche. Se, poi, il governo cade, è esposto ad una emorragia elettorale di almeno un terzo del suo attuale 20 per cento. Almeno Bertoldo, essendo in procinto di essere impiccato, si era preoccupato di riservarsi la scelta dell’albero, cosa che non ha fatto Zingaretti, ormai appeso a Conte, che ne ha ereditato la vocazione maggioritaria, con un appello a “liberali, popolari, socialisti”, cioè l’intero arco costituzionale considerato europeista, una etichetta ormai acquisita in sostituzione della vecchia abusata democratica, peraltro come prima un menù a scelta del potenziale invitato.
Da parte del Pd non è solo o soprattutto un attaccamento dei singoli alla poltrona; certo c’è ben altro, a contare è ormai la convinzione di un intero partito di non poter sopravvivere alla opposizione, sì da tentare di galleggiare sempre nell’area governativa, con l’auspicato sostegno di un qualche presidente della Repubblica comprensivo rispetto a chi lo ha eletto. Se si va a votare si può perdere questo patrocinio costantemente espresso da tutti gli ultimi ospiti del Quirinale, e dopo?