Thatcheriano e “Global Britain”: Johnson parte di slancio e presenta il suo governo per una Brexit liberale

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Il cambio della guardia è stato fatto. Theresa May nell’ultimo intervento di mercoledì ai Comuni ha riservato la stilettata finale al laburista Jeremy Corbyn suggerendogli di fare come lei, di mollare la leadership, quindi ha salutato commossa la nazione prima di recarsi a Buckingham Palace per formalmente suggerire al sovrano il suo successore che a distanza di qualche minuto è stato immortalato mentre si inchinava di fronte ad Elisabetta II accettando l’incarico di formare il nuovo esecutivo. E sono iniziati i fuochi d’artificio organizzati da Boris Johnson.

Il reshuffle, il rimpasto di governo era atteso, ma ha assunto proporzioni che per qualcuno si adattano bene ad un massacro di metà estate. Sedici le teste saltate – tra cui quella dello sfidante Jeremy Hunt che non ha accettato il compito di segretario alla Difesa – e un gruppo a trazione Leave nel quale ha fatto il suo debutto Jacob Rees Mogg, l’esponente di spicco dell’ala euroscettica del Partito conservatore, con i gradi di Leader of the House of Commons, che si occupa di mantenere i rapporti e organizzare i lavori con Westminster. Ma l’attenzione si è spostata sin dall’inizio su tre altri nomi pesanti: Sajid Javid, Dominic Raab e Priti Patel. Innanzitutto per le loro origini: sono britannici di seconda generazione e Johnson aveva promesso un esecutivo che rappresentasse il nuovo Regno Unito.

Javid, proveniente da famiglia musulmana pakistana, ha ricevuto le chiavi dell’economia con la nomina di Cancelliere dello Scacchiere. Ha sfidato Johnson nella successione alla May finché ha potuto. Nel 2016 ha votato timidamente per il Remain e dovrà gestire i conti dello stato in vista di una hard Brexit o di un accordo con l’Unione europea. Il suo trascorso fuori dalla politica è fatto di finanza, avendo lavorato per quasi vent’anni nella City. Si è definito “low-tax” man ed è collocato nella sfera thatcheriana dei Tories che crede tanto nel libero mercato quanto nel bisogno di costruire un “capitale sociale”. Così Johnson ha deciso di investire su un ex investitore.

Il cognome fa intuire le origini ebraiche: da piccolo il padre abbandonò la Cecoslovacchia per fuggire dalla minaccia nazista. Per Raab si tratta di un ritorno: aveva lasciato l’incarico di Brexit secretary in disaccordo con la May sul Withdrawal Agreement, da questa settimana è ministro degli Esteri al posto di Hunt. Dovrà gestire la crisi con l’Iran e agire su un orizzonte più mondiale (a Bruxelles preferiscono trattare con Stephen Barclay che conserva il mandato di segretario per Brexit, considerato più ragionevole). Economicamente è allergico ai sussidi e al salario minimo, mentre è un forte difensore delle libertà civili.

La storia di Priti Patel è da Commonwealth. La famiglia è indiana, ma ha vissuto in Uganda per poi approdare Oltremanica, mettendo in piedi una catena di edicole. Lei è cresciuta con il mito di Margaret Thatcher ed è facilmente ascrivibile all’ala di destra del partito. Ha lavorato per il Referendum Party, la compagine politica che già negli anni ’90 si era fatta portavoce delle istanze più euroscettiche: superfluo sottolineare da che parte si sia schierata tre anni fa. Con la May venne lasciata a casa dopo aver combinato un pasticcio durante un viaggio in Israele durante il quale ebbe colloqui politici senza avvisare il Foreign Office. Stavolta è Home Secretary, ministro degli Interni, ruolo che aveva portato alla ribalta proprio l’ex primo ministro. Promette pugno duro sull’immigrazione, ma non potrà fare a meno di seguire le linee guida di Johnson che sull’argomento è più liberale della collega.

C’è anche Michale Gove, amico/nemico del clan Boris, il volto più pragmatico. Da ministro dell’Ambiente a Chancellor of the Duchy of Lancaster: un ministero senza portafoglio che ha suscitato perplessità. Un contentino? Una promozione? Di che si occuperà? Secondo i rumors è incaricato di predisporre tutto il necessario per un eventuale no deal allo scadere del 31 ottobre. Gove è soprattutto uomo di politica che potrà aiutare Johnson a muoversi nei meandri della burocrazia e della pubblica amministrazione, supporto che gli potrà giungere anche da Oliver Dowden, già vice capo dello staff ai tempi di Cameron e che seguirà i lavori del gabinetto.

Nel corso del suo primo discorso ai Comuni, Johnson ha assicurato che i cittadini europei avranno garantiti i loro diritti anche in caso di un divorzio senza accordo e ha riproposto le linee guida del suo mandato, sottolineando nuovamente gli sforzi per l’istruzione (ministro Gavin Williamson) che lo ha fortemente sostenuto come leader), la sicurezza e le infrastrutture e per dare al regno un respiro internazionale. Ha battibeccato con Corbyn, paragonandolo ad un corpo impossessato e riprogrammato dagli alieni che da euroscettico lo hanno trasformato in un remainer per pungolarlo sui continui cambiamenti di posizione tanto sull’uscita dall’Ue quanto su altri aspetti del programma laburista. Un avvio scoppiettante, nei nomi e nelle intenzioni. Dopo settimane di melina il dibattito si è riacceso a Westminster, non solo per l’ondata di caldo che ha raggiunto anche l’isola.

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