Ci eravamo lasciati – al cinema – con “Dunkirk” di Christopher Nolan, il commovente affresco che aveva suscitato le ire (e l’anglofobia) di Goffredo Fofi. Ce ne occupammo qui: recensendo il film (bellissimo), e anche… recensendo la recensione. La storia la ricordate: la gigantesca operazione che, nel 1940, con il concorso di migliaia di navigli e barche private, riesce a salvare circa 300mila soldati inglesi intrappolati sotto il fuoco nazista sulle spiagge di Dunkerque. Un’evidente sconfitta militare, ma anche un miracoloso atto di orgoglio nazionale, che apre la strada alla riscossa alleata, prima morale e poi sul campo di battaglia.
Dal 18 gennaio è nelle sale italiane un film che racconta l’altro lato di quelle stesse settimane: e cioè cosa accade a Londra in quei momenti. Il regista è Joe Wright, il titolo è “The darkest hour” (L’ora più buia), e il protagonista è un Gary Oldman in stato di grazia, che interpreta il Churchill più indimenticabile della storia del cinema.
In ogni caso, è proprio da Oldman che bisogna partire. Il raffronto con gli attori italiani e i loro piccoli drammi da tinello, da cinquantenni irrisolti, è addirittura umiliante. Siamo dinanzi a un’interpretazione gigantesca. Nonostante la poderosa operazione di trucco, Oldman sceglie la via giusta: non cerca la pura e totale rassomiglianza fisica con Churchill, e neppure sparisce e si annulla nel personaggio. Oldman c’è, lo si riconosce dietro il make-up, ma coglie l’animo e l’essenza del Churchill del 1940.
Ne coglie il fattore umano. E’ un uomo ancora nel mirino, non solo per l’incancellabile ricordo del disastro di Gallipoli, ma anche per la sua traiettoria politica (dai conservatori ai liberali, e poi di nuovo ai conservatori). E’ un uomo solo e accerchiato nel gabinetto di guerra. E’ un uomo isolato da un establishment che – quasi senza eccezioni – vuole la resa ai tedeschi, vuole l’appeasement: lo vogliono i partiti, lo vogliono i maggiori giornali, lo vogliono editori e commentatori, lo vuole perfino l’ambasciatore americano a Londra (Kennedy, il papà di JFK).
Il film descrive il doppio capolavoro churchilliano: per un verso, la costruzione politica che consente l’affermazione della sua linea, e per altro verso il ruggito pubblico, l’appello al popolo, la capacità di incoraggiare i cittadini.
C’è da scommettere che anche in questo caso alcuni recensori anglofobi e antioccidentali avranno bisogno di una massiccia prescrizione di Maalox. Il film è un inno alla libertà, alla resilienza, al carattere indomito, e anche alla politica più alta, quella che non dimentica la bussola dei princìpi.
Andatelo a vedere. Nella rètina mentale non potrà non rimanervi impresso questo Churchill, e resterete grati a Oldman e a chi lo ha diretto con tanta cura ed eleganza.