L’Italia ripudia la violenza, lo dice anche la Costituzione, ed è per questo che collettivamente siamo indignati dopo aver letto la notizia della rom pestata in stazione davanti alla figlia. I più “interventisti” sottolineeranno come si sia trattato di una reazione al furto tentato dalla suddetta rom, mentre i più “attendisti” ci faranno notare che la civiltà non passa per la violenza.
A parere di chi vi scrive, come spesso accade, la verità sta sempre nel mezzo, perché è assolutamente innegabile che, per quanto i disfattisti nostrani vogliano farci credere, siamo un Paese che guarda con entrambi gli occhi ad Occidente, e che ha seppellito il ricorso alla violenza già nel secolo scorso attraverso una forte campagna di sensibilizzazione ed educazione civica.
Rispetto a quanto appena detto però, va sottolineato che se ripudiamo la violenza, allo stesso modo ci aspettiamo un rispetto “civico” reciproco, il che non vuol dire certo emarginare i poveri e le persone con difficoltà sociali (come la rom in questione), ma che l’opera di sensibilizzazione ed educazione civica fatta a noi da bambini, venga svolta verso chiunque, e che chiunque sia chiamato a rispettarla. Non stiamo parlando di indottrinamento, ma del semplice rispetto del contratto sociale, come direbbe Locke, dove ogni cittadino rinuncia ad una sua porzione di libertà per avere regole comuni che comportano un benessere sociale.
Come possiamo quindi spiegare il pestaggio e i commenti “sanguinosi” dei passanti? Il problema è che in quell’istante il contratto sociale si è rotto, l’uomo che ha visto violare il proprio benessere e la propria libertà, ha reagito riappropriandosi di ogni diritto a dispetto del patto sociale, anche quello all’uso della forza.
Perché simili episodi sono ormai così frequenti? Perché abbiamo scambiato l’idea di uno stato aperto ad altre culture con l’idea di uno stato assente, credendo che sia la stessa cosa. L’apertura culturale e il melting pot di culture diverse che si innestano sulla nostra (perché no, migliorandola…) è una cosa, tutt’altra invece è l’assenza dello stato, la totale cecità verso comportamenti socialmente sbagliati e deplorevoli per la nostra cultura, come i furti in questo caso, o azioni coattive di varia natura.
La vera questione non sta quindi nell’accettare ciecamente qualsiasi azione sotto l’egida della tolleranza, compatendo la donna perché vittima di violenza e ignorando tutto il resto. Piuttosto, dovremmo lottare affinché anche queste persone socialmente emarginate possano integrarsi all’interno del patto sociale promuovendo una azione culturale ed educativa anche nei loro riguardi.
È questa la nuova sfida dello stato ed è questa la lotta che partiti liberali e progressisti dovrebbero fare, piuttosto che, ormai con una sinistra sempre più elitaria, guardare lo spettacolo dall’alto inorridendo e puntando il dito contro cosa sia socialmente giusto o sbagliato, aumentando così la distanza fra base elettorale e “vertici politici”.
Nessuno vuole vivere in un Paese dove la giustizia è self-made, e in una società orwelliana di assoluto controllo, piuttosto, ognuno di noi ha il desiderio di vivere in uno stato libero e sicuro, dove sicurezza non significa forza, ma cultura sociale, mentre libertà non vuol dire assenza, ma confronto su un piano sociale comune, mettendo sopra ogni cosa la ragione, che è la base per costituire uno Stato fondato su tolleranza ed uguaglianza reciproca.