In una società sempre più interconnessa e globalizzata, le crisi che avvengono nel mondo, spesso e volentieri, sono in grado di influenzare il nostro stile di vita. Cosa succede quindi se, all’indomani di una crisi internazionale, alcune famiglie italiane si ritrovano senza riscaldamento e corrente elettrica? L’Italia è infatti il paese con il più elevato grado di dipendenza energetica dall’estero tra i maggiori stati europei: circa il 78,6 per cento, contro il 76,3 per cento della Spagna, il 64 per cento della Germania e il 47,3 per cento della Francia. Parlando di gas naturale, in particolare, l’import italiano equivale al 90 per cento, contro la media Ue di circa il 70 per cento (dati SRM). Cosa significa? Che l’approvvigionamento di gas è soggetto alle condizioni geopolitiche dei paesi da cui si importa. Un esempio può essere la situazione odierna nello Stretto di Hormuz, dove le tensioni tra Iran e Stati Uniti mettono a rischio le linee di approvvigionamento via mare dai Paesi del Golfo, con l’Italia possibile vittima illustre, comprando dal Qatar ben il 79 per cento delle importazioni complessive di gas liquefatto (GNL). Ma, per noi, lo sono ancora di più Libia e Algeria: stando ai dati del 2018, dalla prima arrivano 4,5 miliardi di metri cubi che, attraverso il gasdotto Greenstream di Eni, approdano in Sicilia, a Gela; dalla seconda l’Italia importa circa il 28 per cento del gas complessivamente importato, ovvero 17 miliardi di metri cubi che arrivano a Mazara del Vallo attraverso il gasdotto Transmed, anch’esso di Eni.
Il rischio, seppur lontano e influenzato da diversi fattori (come la durata di una crisi e la sua intensità), esiste e bisogna attrezzarsi. Ciò che accadde l’ormai lontano 22 febbraio 2011, giorno in cui l’Eni annunciò la sospensione delle forniture di gas dalla Libia (nel 2010 9,5 miliardi metri cubi, oltre il doppio dell’import attuale) a causa della guerra, potrebbe ripetersi. In Libia, l’avanzata di Khalifa Haftar nella Tripolitania continua, seppur al momento si viva una fase di stallo nello scontro tra il generale libico e il governo di Al-Serraj, sostenuto dall’Italia e dall’Onu.
In Algeria, la popolazione è scesa in piazza per protestare contro la candidatura del Presidente Bouteflika, in carica ininterrottamente dal 1999, costringendolo a ritirarsi dalla corsa elettorale e spingendo l’ufficio di presidenza a formare un nuovo governo e indire nuove elezioni. Tuttavia le proteste sono continuate: nonostante le dimissioni di Bouteflika e la nomina del presidente del Consiglio Abdelkader Bansalah a capo di Stato ad interim, la popolazione continua a denunciare il controllo del potere da parte della vecchia dirigenza vicina all’ex presidente, nonché le ingerenze dei militari nella vita politica del paese, costringendo il consiglio costituzionale ad annullare anche le elezioni organizzate per luglio. Se la Libia è certamente sotto la lente d’ingrandimento, diversamente la situazione politica di Algeri non desta particolare preoccupazione per Eni, che anzi sta sviluppando un memorandum d’intesa con l’azienda energetica di Stato, la Sonatrach, nonostante anche quest’ultima sia stata investita dal ciclone delle proteste (con la cacciata, da parte dei militari, del numero uno dell’azienda, Abdelmoumene Ould Kaddour, sostituito da Rachid Hachichi, capo del settore esplorazione e produzione). Quindi, quali strategie adotta, o può adottare, l’Italia per arginare e ridurre i rischi?
Innanzitutto, la diversificazione è certamente uno dei principali fattori che mitiga il rischio: l’Italia dispone, più di ogni altro paese europeo, di numerose linee di approvvigionamento che le permettono di ridurre in maniera consistente i rischi legati a crisi o a eventi che potrebbero mettere in pericolo il mercato energetico italiano. Pur soffrendo una preponderanza del gas russo (pari a circa il 45 per cento del totale importato), Algeria, Norvegia, Qatar, Libia e Olanda sono gli altri paesi da cui l’Italia importa il gas, a cui si sono aggiunti recentemente gli acquisti di forniture di gas liquefatto (GNL), presenti in gran quantità e a buon mercato (con il possibile arrivo nei prossimi mesi di grosse quantità di GNL americano).
L’Italia inoltre si configura quale possibile hub energetico per l’Europa: oltre che dal Nord Africa, la nostra penisola, strategicamente posizionata in mezzo al Mediterraneo, potrebbe raccogliere grosse quantità di gas provenienti dal Mediterraneo orientale e dalla regione caucasica. Risolta per il momento la questione legata al gasdotto TAP (Trans-Adriatic Pipeline) che, dopo 10 anni, potrebbe finalmente entrare in servizio verso la metà del 2020, è in cantiere un nuovo progetto, quello di Eastmed-Poseidon, inserito nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) di fine 2018. Eastmed-Poseidon dovrebbe collegare Italia, Grecia, Turchia, Cipro e Israele, rendendo il nostro paese meta finale del gas estratto dai giacimenti scoperti nel Mediterraneo orientale. Il progetto è fondamentale dal punto di vista strategico: le risorse presenti nell’area (si stimano 4.000 miliardi di metri cubi), che vede coinvolta anche l’Unione europea con Cipro, potrebbero innanzitutto compensare la riduzione della produzione interna europea, con 120 miliardi di metri cubi nel 2017 (nel 2000 la produzione era più che doppia, pari a 250 miliardi). Il ruolo svolto dal gasdotto Eastmed è anche geopolitico: tema spesso al centro dello scontro tra Stati, l’energia può anche essere strumento di cooperazione tra le parti (persino la Turchia, paese che in più di un’occasione si è scontrato con Grecia e Cipro su numerose tematiche, compreso lo sfruttamento delle risorse naturali). L’obiettivo è certamente alto e di difficile realizzazione, in particolare in un’area ampiamente instabile come il Mediterraneo orientale, ma l’Eastmed ha tutte le carte in regola per trasformarsi in un mezzo di pace e collaborazione, fornendo vantaggi a tutti.
Anche da Washington è arrivato il semaforo verde all’iniziativa, promossa per ridurre la dipendenza energetica europea dalla Russia (contrastando, nel frattempo, la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2, che incrementerebbe esponenzialmente la capacità di trasporto di gas russo verso la Germania), attraverso la presentazione dell’“Eastern Mediterranean Security and Energy Partnership Act of 2019”, atto presentato in forma bipartisan e firmato dal senatore Bob Menendez, demoratico, e il collega repubblicano Marco Rubio.
La diversificazione, insieme a un’appropriata rete infrastrutturale di gasdotti, aree di stoccaggio e rigassificatori, è certamente un aspetto fondamentale, ma non unico: l’Italia possiede infatti considerevoli risorse minerarie nei suoi territori (è il maggiore nell’Europa continentale), e tra queste c’è anche una importante presenza di idrocarburi. L’Italia è il quarto produttore di petrolio in Europa e il sesto produttore di gas. Eppure, la produzione nazionale nel 2018 ha generato solamente il 7,5 per cento dei consumi totali, ovvero circa 5,4 miliardi di metri cubi. Viste le potenzialità del nostro territorio, sarebbe ovvio ricercare nuovi giacimenti… e invece no. Nel nostro paese l’esplorazione delle risorse è ferma dal 2009: da quella data le attività sulla terraferma sono state quasi nulle, mentre l’esplorazione sottomarina è stata inesistente. In un momento in cui le rinnovabili ancora non sono in grado di soddisfare i bisogni energetici del paese ma, anzi, necessitano dell’energia “tradizionale” per poter funzionare, bloccare qualsiasi attività esplorativa è un danno nonché un rischio, in particolare per il gas naturale, che al momento risulta essere la fonte energetica fossile più pulita e quindi più accettabile anche per gli ambientalisti. Senza contare che i nostri vicini non se ne stanno lì, con le mani in mano (vedasi la Croazia che, dopo il no italiano, ha opportunisticamente deciso di avviare nuove esplorazioni nell’Adriatico per i prossimi anni).