Si è detto che il “cambiamento” nel colore del Governo, da giallo-verde a giallo-rosso, è stato costituzionalmente legittimo; lo si è detto concordemente da chi ne è stato favorito, Pd & Co. e 5Stelle, e da chi ne è stato sfavorito, Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia. Il che sarebbe il risultato di un indirizzo interpretativo, a quanto pare dominante, per cui gli artt. 88, co.1 e 92 c.2, che riconoscono al presidente della Repubblica, rispettivamente, il potere di sciogliere le Camere (senza alcun limite esplicito se non quello di sentire previamente i loro presidenti) ed il potere di nominare il presidente del Consiglio dei ministri (senza alcun vincolo espresso) andrebbero letti nel senso di un obbligo costituzionale a suo carico di dare semaforo verde a qualsiasi maggioranza si prospetti capace di ottenere la fiducia delle stesse Camere. Questo essendo influenzato, ma non condizionato, dalla legge elettorale, proporzionale o maggioritaria, per cui se la coalizione vincente si scioglie all’indomani della consultazione elettorale, resta comunque valida la regola per cui conta l’esistenza di una maggioranza qualunque costituitasi comunque alle Camere.
Il che pare trovare un supporto nell’art. 67, per cui ogni membro parlamentare rappresenta la nazione ed esercita la sua attività senza vincolo di mandato, cioè rimane libero rispetto alla sua base elettorale. Poiché nel nostro sistema parlamentare articolato in partiti egli è eletto su liste predisposte, oggi senza neppure le preferenze, e confluisce nei corrispondenti gruppi, ne consegue che può cambiare di gruppo o contribuire a costituirne uno nuovo. Non solo questo, ma ne consegue altresì che uno stesso gruppo può cambiare il suo programma e il suo sistema di alleanze, sostenuti nella propaganda elettorale, dando vita a combinazioni diverse, anche in partenza del tutto contraddittorie.
Ne consegue inevitabilmente quel che almeno da un punto vista politico suona come una legittimazione costituzionale del “trasformismo ” individuale e del “ribaltone” partitico, che quindi conduce ad interpretare l’art. 1, co.1 (per cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione), enfatizzando a tutto tondo la cambiale in bianco rilasciata circa l’esercizio, sicché il popolo non sceglie chi lo governa in base ai programmi elettorali, perché a cominciare dai singoli e a finire coi gruppi parlamentari tutto è possibile e praticabile. Sicché il popolo sceglie solo le coalizioni e i partiti, che possono disporre delle loro doti elettorali senza vincoli a priori, se non di convenienza politica, quale accertata a posteriori in base alla congiuntura politica.
Da qui una duplice considerazione. La prima formale, che cioè, condividendo questo indirizzo, come hanno fatto Lega, 5Stelle e Pd, non si può rimettere in discussione il mandato imperativo, come sembra invocare Di Maio a fonte di un possibile squagliamento dei suoi gruppi parlamentari. Non lo può fare, senza contraddire allo stesso tempo il cambio del partner di maggioranza, ieri la Lega, oggi il Pd, effettuato dai 5Stelle. La libertà di scelta, fino al punto di convolare ad una alleanza con il Pd, dopo una contrapposizione violenta che ha caratterizzato la nascita e la vita del suo movimento, auspice un discutibilissimo pronunciamento della piattaforma Rousseau; questa libertà di scelta gli è concessa perché basata su quella di tutti gli eletti, singolarmente o collettivamente considerati.
Né vale ricorrere ad accordi fra i candidati e la piattaforma Rousseau, con la previsione di sanzioni pecuniarie a danno dei fuoriusciti, che sono giudizialmente non perseguibili. Certo è spiegabile il perché tali sanzioni siano state previste all’inizio, per compensare una selezione dei candidati quanto mai approssimativa; ma non sono assolutamente compatibili con la esclusione costituzionale del mandato imperativo.
La seconda considerazione è sostanziale. Se la sovranità del popolo è ridotta ad una scelta limitata alle sigle, senza che queste siano tenute a rispettare le loro stesse indicazioni programmatiche, si riduce a ben poco, tanto da favorire l’astensionismo, perché quanto si riduce il peso condizionante del voto, tanto si accresce il disinteresse a esercitarlo. E alla luce di questo effetto disincentivante, che certo non è coerente con l’art. 48, co. 2 (per cui il voto non è solo un diritto, ma anche un “dovere civico”) forse andrebbe temperato l’orientamento sopra espresso per il cui presidente della Repubblica sarebbe tenuto a benedire qualsiasi maggioranza parlamentare, anche se costruita in maniera artificiosa, in totale discrasia rispetto alle promesse elettorali, solo per evitare lo scioglimento delle Camere in ragione di una sicura vittoria elettorale del centrodestra, quindi con una sorta di aperta confessione di non essere maggioranza nel Paese.
Una paura esagerata o fondata? Il rosario delle elezioni regionali, a cominciare dall’Umbria, dove c’è una coalizione giallo-rossa, se pur pudicamente presentata in termini di convergenza su una comune candidatura civica, ci potrà dare una risposta, che peraltro potrà rafforzare o indebolire il Governo, comunque senza farlo cadere. Ma proprio con riguardo alla prossima scadenza dell’Umbria la posizione dei 5Stelle ha fatto proseliti, tanto da tentare il Pd a trasporne l’applicazione a livello regionale, col prevedere una sanzione economica per i consiglieri eletti che cambino bandiera nel corso della legislatura. La stessa preoccupazione di una scarsa tenuta del proprio gruppo, che segnala una situazione di fibrillazione interna estesa anche al Pd, all’indomani della scissione renziana. Ma, a giudizio di chi scrive, la soluzione appare ugualmente impraticabile, perché la norma costituzionale che esclude il mandato imperativo ha di per sé una portata espansiva, applicandosi, comunque, anche alle autonomie regionali e comunali.