Tregua nel chicken game tra Governo e Commissione sulla manovra: e i polli sono due

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Il pericoloso chicken game avviato fin dal giugno scorso dal governo gialloverde e dalla Commissione europea, le cui contrapposte infuocate dichiarazioni hanno quotidianamente infiammato lo spread, non si è concluso per fortuna con uno schianto. Ma, almeno per ora, entrambe le parti hanno abbassato lo sguardo, svicolando. Una tregua. Che tuttavia conferma la natura tutta politica, da una parte e dall’altra, e ben poco tecnica delle schermaglie. Alesina e Giavazzi sono rimasti forse gli ultimi a stupirsi che la Commissione europea non svolga un ruolo solo tecnico come imporrebbero i trattati.

Le opposizioni avranno gioco facile nel rimproverare al governo di aver ceduto, ma con quale credibilità, avendolo fino ad oggi rimproverato esattamente del contrario, cioè di sfidare la Commissione, e per di più proponendo molta più spesa nei loro programmi elettorali e nelle loro contro-proposte? Prima accusato di essere sovranista, ora di non esserlo stato abbastanza. Quante parti in commedia si possono recitare nell’arco di poche settimane?

Dalla riscrittura a Bruxelles la manovra di bilancio esce ulteriormente peggiorata. Certo, la responsabilità principale resta del nostro governo, le cui priorità assistenzialiste non servono a rilanciare la crescita e l’occupazione (la migliore cura contro la povertà), e anzi c’è addirittura il forte rischio che sortiscano effetti recessivi. Ma la Commissione, da tutto questo scontro che ha contribuito ad alimentare con dichiarazioni spesso fuori luogo, inopportune, controproducenti, cosa ha ottenuto per i cittadini italiani che diceva di avere a cuore? Le correzioni apportate dal governo di Roma migliorano la manovra rispetto all’obiettivo della crescita? No. Decisamente no. Tagli agli investimenti, più tasse sulle imprese, clausole di salvaguardia di aumento dell’Iva, rinvio di qualche settimana delle due misure “populiste” di spesa corrente – il reddito di cittadinanza e “quota 100”.

Nello specifico, troviamo una web tax gravante sui soggetti che nell’esercizio di attività di impresa prestino servizi digitali superando determinate soglie di ricavi, con effetti che possiamo immaginare su e-commerce, servizi bancari, cloud, eccetera. L’abrogazione del credito di imposta relativo alle deduzioni forfetarie in materia di Irap riconosciute ai soggetti passivi che impiegano lavoratori dipendenti a tempo indeterminato in alcune regioni. L’abrogazione del credito di imposta in favore dei soggetti che compiono investimenti in beni strumentali nuovi. L’abrogazione dell’aliquota ridotta Ires in favore degli enti non commerciali della Chiesa. E un pacchetto di nuove tasse sui giochi.

Lo stesso vicepresidente della Commissione Dombrovskis ammette che “la soluzione sul tavolo non è ideale, non dà una soluzione a lungo termine ai problemi economici italiani, ma ci consente di evitare per ora di aprire una procedura per debito”. Le nuove misure, ha aggiunto, contengono “tasse più elevate sulle aziende e tagli agli investimenti pianificati, che non sono favorevoli alla crescita”. Una parte cospicua dei 10 miliardi trovati dal governo italiano per evitare l’avvio della procedura per debito eccessivo deriva dall’entrata in vigore ritardata di reddito di cittadinanza e “quota 100”. Ma nel 2020 e 2021, quando queste misure entreranno pienamente in vigore, sui 12 mesi, costeranno di più. A copertura dei maggiori costi, il governo ha reintrodotto le clausole di salvaguardia che prevedono aumenti automatici dell’Iva in mancanza di risorse diverse.

Certo, si dirà che le scelte di merito sono dei governi, alla Commissione spetta guardare i saldi. Vero, non assolvo il governo gialloverde, ma se il patto è di “stabilità e crescita”, è evidente che così interpretato, non aiuta la seconda e minaccia la prima: come si fa a ridurre il debito se non si cresce? Le regolette di Bruxelles continuano a essere stupide: il deficit programmato scende dal 2,4 al 2, ma è un numero fittizio, scritto sulla sabbia, mentre la manovra è qualitativamente peggiore. E con il “visto si stampi” dell’Ue. Se dopo mesi di furiose polemiche, questo è il risultato dell’intervento della Commissione, qualcosa non va e dovremmo riconoscerlo. Lo strumento è sbagliato, quando lo capiremo?

L’esito di questo costoso chicken game conferma che la questione era ed è tutta politica. E lo si deduce anche dalle parole del commissario Moscovici: “Non possiamo ignorare il contesto… Non abbiamo tenuto conto delle elezioni europee. Ma se vivessimo in una sorta di bolla ignorando l’atmosfera che esiste nell’Ue, l’ascesa dei partiti nazionalisti, il sentimento che ci può essere qui o là un comportamento troppo austero e burocratico, saremmo davvero fuori strada”. E in caso di procedura, “gli antieuropeisti sarebbero stati contenti”. Quindi sì, hanno tenuto conto proprio delle prossime elezioni europee.

Non si tratta di uno 0,4 di deficit in più o in meno (soprattutto se poi per ridurlo si accettano misure recessive). Si doveva prendere di mira il primo governo populista in un Paese fondatore dell’Ue per “educarlo”, concludendo poi che fosse meglio soprassedere, per il momento, per ragioni di “contesto politico” – non ultima lo sforamento del tetto del 3 per cento da parte della Francia di Macron, non nuova ad andare molto oltre. Condannando Roma e assolvendo Parigi la Commissione sarebbe stata accusata di doppio standard (anche considerando il conflitto di interessi del commissario francese, e neo macroniano, Moscovici). Al di là di numeri e regole, sarebbe stato politicamente insostenibile. Proprio il cedimento di Macron ai gilet gialli potrebbe aver suggerito a Bruxelles più miti consigli e salvato il governo italiano. Ma una Commissione “politica” non serve a nessuno: quando mostra un atteggiamento punitivo, scatena fondate accuse di doppiopesismo e  recriminazioni nazionaliste. Quando chiude un occhio, si rende complice di misure non orientate né alla crescita né alla stabilità, alimentando il moral hazard dietro garanzia della Bce.

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