Non ci sono prove. Non ci sono pistole fumanti. Non ci sono documenti ufficiali che inchiodano i responsabili all’evidenza. Eppure l’origine del Covid-19 continua a suscitare dubbi e domande (per ora) senza risposta. Non si tratta di teorie cospiratorie, come il partito filo-cinese ormai globalizzato si affretta a etichettare qualsiasi ipotesi che metta in discussione la versione ufficiale del regime di Pechino, quella secondo cui tutto ebbe inizio all’interno del mercato di Wuhan per un insondabile scherzo del destino. Semplicemente c’è chi pensa che con più di un milione di contagiati ufficiali e molti di più reali, con la propaganda cinese in piena azione, con le bare che si accumulano fuori dagli obitori in Europa e negli Stati Uniti, il minimo che si possa fare sia continuare a indagare come tutto questo sia potuto accadere.
A rilanciare la teoria dell’incidente di laboratorio ci ha pensato negli ultimi giorni nientemeno che il Washington Post, a firma di una vecchia volpe come David Ignatius, che ha riassunto in un breve ma significativo articolo gli elementi principali a sostegno di questa possibilità. Se infatti la comunità scientifica concorda nell’escludere che il coronavirus sia stato prodotto o propagato deliberatamente come arma batteriologica, le opinioni sono meno unanimi quando si ragiona sull’ipotesi di una fuoriuscita accidentale di un virus di origine animale che si stava studiando nel Chinese Center for Disease Control and Prevention e nell’Institute of Virology di Wuhan.
Proviamo a ricostruire la catena di informazioni raccolte fino a questo momento partendo dalla presunta zona zero, il mercato del pesce di Wuhan. È assodato che il Covid-19 ha avuto origine in una specie di pipistrello denominato “a ferro di cavallo” e che, attraverso uno o più passaggi intermedi, si è trasmesso all’uomo. Per settimane i media internazionali hanno dato per buona la tesi cinese secondo cui la diffusione del virus sarebbe avvenuta all’interno del mercato, attraverso la manipolazione di animali infetti. Ultimamente però questa spiegazione ha cominciato a mostrare la corda perché lascia aperta una questione essenziale: considerando che questa specie è caratteristica delle province dello Yunnan e dello Zhejiang, che distano circa 900 chilometri dalla capitale dell’Hubei, come ci sono arrivati i pipistrelli a ferro di cavallo al centro di Wuhan? Difficile che lo abbiano fatto da soli in volo a planare, visto che il loro habitat naturale è la grotta, isolata, umida e oscura: più probabile che qualcuno ce li abbia portati. Ma i pipistrelli non si vendono al mercato di Wuhan e non è ancora chiara l’identità del presunto “ospite” che avrebbe contratto e albergato il virus in attesa di passarlo all’uomo: all’inizio si parlava di un serpente, poi del pangolino, poi del contatto diretto di qualche venditore ambulante con il pipistrello. Insomma, si brancola nel buio da mesi. Oltretutto la rivista The Lancet già a gennaio escludeva che il primo caso riconosciuto di Covid-19 avesse a che vedere con il mercato del pesce. È vero che i primi malati vivevano nei paraggi e possono certamente aver contagiato alcuni clienti ma è dimostrato che il paziente zero (e anche i successivi passaggi) non aveva mai messo piede nell’area incriminata. Infine, se l’infezione è nata dentro quel mercato, perché non si è estesa agli altri centri di distribuzione in tutto il Paese che si rifornivano proprio a Wuhan? Mancano troppe tessere del mosaico.
E qui entrano in scena i due laboratori sopracitati. Il primo, il Wuhan Chinese Center for Disease Control and Prevention (WHCDC), dista solo 300 metri dal famoso mercato. Lo scorso febbraio il sito di divulgazione scientifica ResearchGate pubblicava un breve articolo di due ricercatori del Guangzhou’s South China University of Technology, Botao Xiao e Lei Xiao. Nell’analisi, poi precipitosamente ritirata dalla pagina web ma tuttora consultabile come documento in internet, gli studiosi riferivano che nel laboratorio si stavano effettuando studi su 450 pipistrelli provenienti dalla zona dello Zhejiang: agli animali, chiusi in apposite gabbie, venivano prelevati campioni di tessuti per isolarne le sequenze genetiche, DNA e RNA. I campioni e i materiali di scarto, osservano gli autori, “erano fonte di agenti patogeni”. Botao Xiao e Lei Xiao notavano poi la prossimità del WHCDC con lo Union Hospital, dove si erano registrati i primi casi di medici contagiati: “È plausibile – concludono – che il virus sia entrato in circolazione e che alcuni medici abbiano infettato i primi pazienti”. Per supportare il loro ragionamento, gli autori citano il caso di Tian Junhua, un ricercatore del centro, noto anche alle cronache nazionali come vero e proprio “cacciatore di pipistrelli“. Un documentario della televisione cinese lo presentava lo scorso dicembre mentre si addentrava in antri e anfratti, senza le protezioni adeguate, alla ricerca di materiale per le sue sperimentazioni. In uno dei passaggi del video lo stesso Tian Junhua dichiarava: “Mi muovo con estrema cautela, i pipistrelli sono portatori di una gran quantità di virus, mentre lavoro ho paura delle infezioni perché l’esposizione in queste condizioni è molto elevata”. Evidentemente le precauzioni non sono mai troppe se è vero, riferiscono ancora Botao Xiao e Lei Xiao, che lo stesso Tian Junhua aveva dovuto mettersi in quarantena in seguito ad un paio di incidenti avvenuti durante le sue missioni, dopo essere entrato in contatto con il sangue e l’urina dei pipistrelli. Perfino il Wuhan Evening News riferiva in una sua cronaca recente che, dal 2012, Tian aveva raccolto e trasportato dalle grotte al laboratorio di Wuhan migliaia di esemplari di pipistrelli, tra cui la specie “a ferro di cavallo” responsabile dell’infezione.
Secondo il professor Richard H. Ebright, biologo molecolare del Waksman Institute of Microbiology dell’università del New Jersey, durante la manipolazione di questi campioni “potrebbe essersi verificato un incidente con il possibile contagio di un dipendente del laboratorio”. Il WHCDC è un centro catalogato come Biosafety Level 2 (BSL-2), il che implica un livello di protezione piuttosto limitato se paragonato al BSL-4 del Wuhan Institute of Virology, di cui parleremo fra poco. Ebright inoltre accenna a un video prodotto dallo stesso laboratorio in cui si vedono membri dello staff lavorare sui coronavirus senza il rispetto dei protocolli regolamentari. Ancora più contundenti le conclusioni di Botao Xiao e Lei Xiao nello studio già citato: “In sintesi, qualcuno è stato coinvolto nel processo evolutivo del coronavirus 2019-nCoV. (…) Il coronavirus killer probabilmente proviene da un laboratorio a Wuhan. Potrebbe essere necessario rafforzare il livello di sicurezza dei laboratori ad alto rischio biologico. È consigliabile trasferire i laboratori lontano dal centro della città e da altri luoghi densamente popolati”. Non è una denuncia qualsiasi, è una bomba che scoppia nel centro dell’epidemia e mette in relazione le possibili fonti del contagio, scagionando il mercato di Wuhan e attribuendo la responsabilità dell’infezione a un errore fatale durante i processi di sperimentazione. Un storia enorme, in seguito ritirata ufficialmente per “mancanza di prove contundenti“, che si aggiunge alle molte denunce di medici e attivisti caduti in disgrazia.
Possibile che i cinesi siano così imprudenti da lasciarsi scappare un virus potenzialmente letale in una capitale di provincia di 12 milioni di abitanti? Possibile perché è già successo, anche se praticamente non se ne parla. Dopo l’epidemia di origine naturale del 2002-2003, il virus della SARS entrò nuovamente in contatto con la popolazione almeno quattro volte negli anni successivi, tutte a causa di errori umani. Il caso più grave di cui si abbia notizia, confermato dall’OMS e citato dalla rivista The Scientist, risale all’aprile 2004 e coinvolge due ricercatori di un laboratorio di Pechino delle stesse caratteristiche del WHCDC, contagiatisi separatamente mentre lavoravano su campioni del virus. Risultato: 8 persone infettate, un morto e centinaia in quarantena, prima che il focolaio fosse spento.
Ma a Wuhan c’è un secondo laboratorio, il più importante di tutti. Fa parte dell’Institute of Virology (WIV) e si trova a dodici chilometri dal mercato del pesce. Questa volta sì, siamo di fronte a un centro di ricerca di massima sicurezza catalogato come BSL-4. Amministrato dall’Accademia delle Scienze cinese, ha aperto i battenti nel 2015 grazie a una joint venture con la Francia ed è parte di un più ampio progetto destinato a dotare la Cina di sette strutture dello stesso livello entro il 2025. Pare che Xi Jinping assegni grande importanza all’investigazione su virus e batteri. Del WIV scriveva la rivista Nature tre anni fa definendolo “un laboratorio autorizzato a lavorare con gli agenti patogeni più pericolosi al mondo“. E infatti il suo staff deve vedersela con lo stoccaggio, la manipolazione e la sperimentazione su campioni di Ebola e soprattutto coronavirus della famiglia della SARS. Tra questi, osserva ancora Ebright, uno proveniente dal pipistrello (RaTG13) il cui codice genetico è simile a quello del Covid-19 al 96 per cento. Gli stessi scienziati del WIV ne hanno descritto le caratteristiche in successive pubblicazioni. Tra novembre e dicembre, proprio in corrispondenza con i primi casi accertati di infezione nella zona di Wuhan, l’istituto pubblicava due bandi di concorso per un progetto riguardante “coronavirus della famiglia della SARS in pipistrelli“, aggiungendo che era stato identificato “un gran numero di nuovi virus” con caratteristiche simili. Nello stesso periodo il WIV era costretto a smentire ufficialmente la notizia secondo cui il paziente zero dell’epidemia sarebbe stata una sua ricercatrice, Huang Yanling, prima negandone l’esistenza e poi ammettendo che questa persona aveva lavorato nel centro ma attualmente non ne faceva più parte. La sua foto, in ogni caso, è stata rimossa dall’archivio dell’istituto. Di lei non si hanno notizie certe.
Tentiamo qualche conclusione. È certamente possibile che – nella città in cui operano due dei più importanti laboratori di ricerca del Paese, specializzati in studi e esperimenti su coronavirus di origine animale e che proprio in quel momento stavano sviluppando importanti progetti sui pipistrelli – la malattia abbia avuto origine all’interno di un mercato cittadino in cui, in teoria, si vendeva tutt’altro e per raggiungere il quale i pipistrelli avrebbero dovuto volare per centinaia di chilometri. È certamente possibile, ma qualche dubbio è lecito, trattandosi di una coincidenza quantomeno insolita che getta nuova luce anche sui tentativi (riusciti) di insabbiamento da parte del regime cinese di cui abbiamo già scritto in articoli precedenti. Pensiamo alle sei settimane che Pechino ha tardato prima di confermare all’OMS la trasmissibilità della malattia da persona a persona (21 gennaio): perché tanta ostinazione nel mettere a tacere le voci dissidenti e nel censurare le informazioni sull’infezione se si trattava di un virus generatosi accidentalmente in un mercato affollato del centro di Wuhan? Pensiamo alla direttiva del ministro di scienza e tecnologia, rilasciata nel febbraio scorso, riguardante “istruzioni sul rafforzamento della biosicurezza nei laboratori di microbiologia che trattano virus avanzati come il nuovo coronavirus”: perché il governo cinese ha sentito la necessità di incrementare le misure di sicurezza se l’errore umano non aveva avuto nulla a che vedere con la propagazione del Covid-19? Non ricorda, anche nella formulazione, la raccomandazione di Botao Xiao e Lei Xiao nel loro paper poi frettolosamente ritirato? E ancora. Perché il generale dell’Esercito di Liberazione Popolare, Chen Wei, specialista in guerra batteriologica fu inviata a Wuhan a fine gennaio e si installò proprio al Wuhan Institute of Virology? E infine. Quanto c’è di vero nelle notizie che indicano come pratica diffusa la vendita di animali di laboratorio a venditori ambulanti da parte di alcuni ricercatori?
Domande (per ora) senza risposta ma che permettono comunque di ipotizzare due conclusioni alternative: un impiegato infettatosi durante una sperimentazione o semplicemente entrato in contatto accidentalmente con l’agente patogeno potrebbe aver portato il virus fuori da uno dei due laboratori di Wuhan, provocandone la diffusione prima nelle vicinanze del mercato e poi in altre zone della città; un animale oggetto di studio potrebbe essere stato venduto da un lavoratore del centro alle bancarelle del mercato di Wuhan o a qualche commerciante di specie esotiche in prossimità dei laboratori. Non ci sono prove. Non ci sono pistole fumanti. Non ci sono documenti ufficiali che inchiodano i responsabili all’evidenza. Ma ci sono troppi morti là fuori per accontentarsi delle veline di una dittatura.