Donald Trump rappresenta una figura politica destinata a rimanere nella storia. Anzi, senza timore di esagerare, pensiamo che il 45° presidente degli Stati Uniti d’America stia già facendo la storia, giorno dopo giorno, e questa verità dovrà essere riconosciuta prima o poi anche dai più feroci critici dell’ex-tycoon newyorchese. Durante l’inizio della sua avventura politica, ovvero le primarie repubblicane del 2016, conquistava progressivamente la maggioranza della base del partito, ma allo stesso tempo veniva visto come un marziano o un intruso dall’establishment del Gop e da quei repubblicani, per così dire, più tradizionali, abituati, per esempio, alla famiglia Bush. Molti conservatori e liberali classici, questi ultimi da non confondere con i liberal, si trovavano in parte spaesati di fronte alla dirompenza di un personaggio che andava oltre i consueti canoni del conservatorismo liberale ereditato da Ronald Reagan.
Una volta conquistata la nomination, ben pochi ritenevano che l’eccentrico milionario dalla bizzarra capigliatura potesse battere la ben navigata Hillary Clinton, e un certo scetticismo circa le possibilità di vittoria del candidato Trump non riguardava solo i radical chic di tutto l’Occidente, noti per la loro sicumera ma anche per le previsioni sballate, bensì diversi ambienti conservatori. Invece l’outsider Donald Trump, come ormai sappiamo, è riuscito a ribaltare tutti i pronostici, umiliando l’ex first lady democratica, la quale probabilmente aveva già organizzato il proprio trasloco nello Studio Ovale. Trump si è rivelato una sorpresa anche espletando il proprio mandato da presidente non in maniera negativa, almeno finora. Non ha tradito le promesse dei comizi, come al contrario può capitare ai politici, abituati a dirne una in campagna elettorale e a farne un’altra al raggiungimento della stanza dei bottoni. Donald Trump ha semplicemente adattato, con una coerenza di fondo, i toni di piazza alle complessità di una nazione particolare come gli Stati Uniti. Smentendo chi vedeva in questo leader, per molti aspetti inedito, quasi un fascista autarchico, l’isolazionismo trumpiano si è caratterizzato invece non per l’affossamento tout court della globalizzazione, bensì una ridiscussione di regole, e di qualche consuetudine squilibrata e sfavorevole all’America, con i principali competitor come la Cina, ma anche con gli alleati storici europei e i vicini Canada e Messico.
Lo stesso discorso può essere ripetuto per quanto riguarda la Nato, che non ha mai corso il rischio di subire un colpo di spugna da parte di Trump. Richiamare l’Europa, spesso distratta e dormiente, alle proprie responsabilità, anche economiche, verso l’Alleanza Atlantica, significa semmai volere più Nato, e non auspicarne lo scioglimento. L’America di Trump non si è affatto ritirata dal resto del mondo, e quando serve, (pensiamo all’eliminazione del generale iraniano Soleimani e alla costante salvaguardia della sicurezza di Israele), sa come ricordare la propria presenza ai nemici del mondo libero. In economia Donald Trump ha varato uno storico taglio delle tasse e ridotto il ruolo dello Stato. Grazie a questo la locomotiva a stelle e strisce non è mai stata forte come negli ultimi anni, a livello di Pil e di occupazione, e in tal modo è stato possibile rincuorare anche chi, giustamente, non vuole gettare alle ortiche gli insegnamenti reaganiani. Nemmeno l’assai presunto razzismo trumpiano, sventolato perlopiù dalla Cnn e dai commentatori liberal, può essere più un’arma credibile per screditare l’attuale presidente, visto che proprio la classe lavoratrice afroamericana vive meglio oggi che durante gli anni di Barack Obama.
L’imprevedibile outsider degli inizi ha dimostrato insomma di essere in grado di far politica e di saperla fare anche piuttosto bene, quindi, già solo a partire da questo, non è da escludere la sua rielezione. Ma il famoso “Four more years” diventa indispensabile se pensiamo al livello rasoterra a cui sono giunti gli avversari democratici. Trump potrebbe puntare ad essere riconfermato per i propri meriti, ma i demeriti altrui fanno del presidente in carica una garanzia di continuità e stabilità per gli Usa in primo luogo, ma anche per il resto del mondo, considerato il ruolo globale della democrazia americana.
I mainstream media ci hanno annoiato con le prediche riguardanti i metodi rozzi e spicci del presidente americano, ma non vi è mai stato nulla di più volgare ed offensivo, nella storia politica recente degli Stati Uniti, del comportamento di Nancy Pelosi alla fine del discorso di Trump sullo stato dell’Unione. La speaker democratica, strappando platealmente i fogli contenenti il testo del discorso del presidente, ha pugnalato uno dei tratti distintivi della democrazia d’oltreoceano. Le campagne elettorali americane sono piuttosto dure e non mancano di certo i colpi bassi, ma dinanzi al vincitore, che diviene ormai il presidente di tutti gli americani, si palesa il rispetto istituzionale degli avversari, eppure la Pelosi ha ritenuto di calpestare tutto ciò. Lo stordimento ed una certa disperazione politica, che stanno caratterizzando in questo momento il partito dell’Asinello, possono portare evidentemente a gesti poco nobili. L’impeachment è finito in barzelletta e le primarie democratiche in Iowa si sono rivelate ancora più comiche. Non si riesce ad individuare un candidato forte da contrapporre a Trump, e per ora si agitano solo figure di vecchi socialisti come l’arcinoto Bernie Sanders o fragili come Pete Buttigieg. Si può obiettare che vi sia anche Michael Bloomberg, per ora impegnato a scaldare i motori dietro le quinte, e che le primarie Dem in Iowa e New Hampshire siano solo le prime e molto parziali prove. L’ex sindaco di New York ha anch’egli, riteniamo, più di una debolezza. Anzitutto, per quanto voglia rappresentare un’alternativa al trumpismo, rischia di esserne una copia sbiadita, con il conto corrente e l’età anagrafica simili a quelli del presidente uscente, e si sa, alle fotocopie si preferisce quasi sempre l’originale. Inoltre, non sarà facile per il “moderato” Bloomberg aggregare attorno a sé la base di un partito democratico che negli ultimi anni si è spostato molto a sinistra ed è caduto ostaggio dei vari Sanders e delle varie Ocasio-Cortez. I Democratici Usa, che ebbero in passato riferimenti del calibro di Roosevelt e Truman, oggi sembrano essere animati solo più da socialisti e pasticcioni di varia natura.