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Trump e Brexit lo dimostrano: il vero pericolo per la libertà economica è la centralizzazione

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Ursula von der Leyen

Il “pericolo dazi” viene usato come spauracchio contro i “sovranismi”, per sostenere politiche di centralizzazione, ma è questa il vero pericolo per la libertà economica. Con Trump gli Usa non si sono certo ritirati dal commercio mondiale. E tra Regno Unito e Ue si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata

C’è un attacco frequente che viene portato dagli europeisti “liberal-democratici” al liberalismo euro-scettico. Secondo i cosiddetti “liberal-democratici”, il libero mercato è possibile solamente se sostenuto da un quadro politico unitario, mentre i “sovranismi” sfocerebbero inevitabilmente in politiche protezioniste ed autarchiche.

In altre parole, senza l’Unione europea e, più in generale, senza istituzioni sovranazionali con poteri sempre crescenti, il mondo andrebbe alla deriva verso dazi e chiusure di stampo nazionalista.

Questa teoria appare poco convincente, nel momento in cui è evidente che, quasi sempre, sono gli Stati piccoli e sovrani – si pensi alla Svizzera o a Singapore – ad essere i più “globalizzati”.

Ma anche le moderne politiche cosiddette “unilateraliste” o “sovraniste” non sembrano rappresentare il pericolo per il libero mercato che sovente viene attribuito loro.

Pensiamo all’America. Siamo davvero convinti che, dopo quattro anni di ricette trumpiane, l’America commerci meno di quanto avvenisse in passato? La verità è che, durante l’amministrazione Trump, il commercio estero americano ha continuato a crescere ad un ritmo sostenuto, sia per quanto riguarda l’export che per quanto riguarda l’import. Il NAFTA è stato rimpiazzato dall’USMCA, la Trans Pacific Partnership sostituita da accordi bilaterali con Giappone e Corea del Sud, ed un primo accordo con il Regno Unito post-Brexit comincia a profilarsi.

E i famosi dazi, contro cui i nostri media hanno gridato “Al lupo! Al lupo!”? Com’era prevedibile, il loro effettivo impatto sul complesso delle relazioni commerciali è stato ridotto. L’America non si è certo ritirata dal commercio mondiale.

E pensiamo alla Brexit. L’accordo che alla fine è stato trovato tra Londra e Bruxelles salvaguarda la sostanza delle relazioni di libero scambio ed evita l’introduzione di dazi e quote.

Per quanto, in molti casi, fossero proprio molti europeisti nominalmente “pro-mercato” a tifare per dazi e altre “punizioni esemplari” per i britannici, alla fine relazioni internazionali efficaci non si intrattengono con dispetti e risentimenti – e il “deal” firmato è la dimostrazione che si può commerciare liberamente anche senza avvinghiarsi in smisurate unioni politiche.

Tra Regno Unito ed Europa continentale si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata.

Nella pratica, quindi, il “pericolo dazi” che viene usato come spauracchio per sostenere politiche di centralizzazione si sta rivelando di parecchio sopravvaluto. Esiste, naturalmente, un “rischio dazi”, ma è fortunatamente molto limitato e non per ragioni di generalizzata adesione ideologica ai princìpi dell’economia liberale, quanto ben più prosaicamente perché i dazi non funzionano; sono inefficienti e controproducenti e danneggiano non solo chi li subisce, ma anche chi li impone.

Chi chiude (o socchiude) le frontiere al commercio sa che ci perde. Per questa ragione è improbabile che, tra moderni stati occidentali, le politiche protezioniste possano andare oltre il livello puramente simbolico che può essere necessario a conquistare il consenso elettorale di qualche constituency. Come nel caso delle politiche di Trump verso la Cina, è qualcosa che si può fare in casi particolari e circoscritti, come “sfida” a Paesi che abbiano un record inaccettabile nel campo dei diritti umani o rappresentino un reale pericolo geo-strategico – ma comunque mettendo in conto che ci si sta rimettendo. In nessun caso è possibile fare dei dazi la chiave di una strategia economica di successo.

In definitiva, la decentralizzazione politica non rappresenta un pericolo per il libero mercato e la globalizzazione, in quanto, tra Stati indipendenti, tutti gli incentivi sono, comunque, nella direzione della cooperazione economica e del libero commercio.

È, invece, proprio la centralizzazione a rappresentare il vero pericolo per la libertà economica perché in quel tipo di contesto la tendenza va nella direzione della deresponsabilizzazione, del parassitismo territoriale e di scelte economiche di breve periodo.

Il problema è che in un ambito quale quello dell’Ue, ad esempio, il “comportamento razionale” di ogni politico è proprio quello di ottenere il massimo ritorno per il proprio territorio ed il proprio elettorato di riferimento, a spese di tutti gli altri. Questo ritorno può assumere tante forme, dall’orientamento delle scelte politiche e burocratiche, al sistematico “azzardo morale” nelle decisioni di spesa pubblica. In altre parole, massimizzare la spesa per acquisire il consenso, appoggiandosi poi alla copertura offerta dalla Bce, risulterà sempre preferibile rispetto al fare digerire al proprio elettorato politiche di disciplina fiscale. Ceteris paribus, qualunque politica più oculata avrebbe meno successo.

La verità è che, mentre i rischi potenziali legati alla decentralizzazione politica sono disinnescati dagli evidenti incentivi di mercato offerti dal libero commercio, non esiste nessuna forma di ribilanciamento che possa tenere sotto controllo i rischi della centralizzazione.

Anzi, in un quadro istituzionale centralizzato, tutti gli incentivi vanno nella direzione dell’adozione di policy deteriori: offuscare il rapporto tra spesa pubblica e suo finanziamento, localizzare i vantaggi, centralizzare e ri-distribuire i costi. È da sempre la cifra del rapporto tra regioni e Stato centrale in Italia, lo è e lo sarà sempre più quella del rapporto tra Stati membri e Unione europea. In definitiva, chi crede nell’economia liberale, non ha ragione di guardare con riverenza alle entità sovranazionali e di temere la Brexit e gli altri movimenti politici che vanno nella direzione di una maggiore pluralità istituzionale. Al contrario, deve sempre più realizzare come il pericolo per i sani principi economici venga proprio da quelle gigantesche entità istituzionali in grado di sospendere i più basilari concetti di accountability, incoraggiando dinamiche malsane e disfunzionali.