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Trump fa bene a congelare i fondi all’Oms: ecco come funziona il baraccone Onu dove si coalizza il fronte anti-occidentale

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C’è chi si domanda come il presidente Trump voglia e possa sospendere i fondi all’Oms, una agenzia delle Nazioni Unite (lo ha già fatto nel 2017 con un’altra agenzia Onu, l’Unesco). Qualche chiarimento su come funziona il Palazzo di Vetro può servire a capire. L’Organizzazione delle Nazioni Unite è nata nel 1945 per unire, appunto, i Paesi del mondo su obiettivi condivisi di rispetto dei diritti umani, pace, sicurezza, sviluppo, promuovere la composizione delle controversie internazionali, sviluppare relazioni amichevoli tra le nazioni, nel rispetto del principio di uguaglianza tra stati. Invece è diventata terreno di scontro tra aree geopolitiche, con un progressivo coalizzarsi di forze contro l’Occidente. L’Assemblea generale convocata ogni anno a settembre si è trasformata in opportunità per consolidare il fronte internazionale anti-occidentale: passerella di dittatori, con Hugo Chavez, che faceva il segno della croce ogni volta che durante il suo intervento nominava George W. Bush, Mahmud Ahmadinejad, Robert Mugabe; oggi con Nicolas Maduro, Hassan Rohani… ai quali quest’anno si è aggiunta con le sue invettive Greta Thunberg. 

Le grandi conferenze mondiali – su razzismo (2001), donne (1975, 1980, 1985, 1995, 2005, 2015), ambiente (dal 1992, 20), emigrazione (2018)… – sono altrettante occasioni di sfrenati attacchi all’Occidente, resi più efficaci dalla grande risonanza mediatica che ne amplifica la portata. Gli stati occidentali si difendono astenendosi dal sottoscrivere carte, protocolli, risoluzioni, patti di cui non condividono il contenuto. Se si va al voto, i numeri li mettono in minoranza perché il principio dell’uguaglianza tra gli stati membri è stato applicato adottando il sistema di “uno stato un voto”, senza riguardo per due fattori: il numero di persone rappresentate e l’ammontare dei contributi finanziari.

Il risultato è che all’Onu il voto di Tuvalu, con 11.508 abitanti, di Vanuatu, con 272.000, o della Guinea Equatoriale, con 1,3 milioni, vale quanto quello dell’India, che ha 1.353 milioni di abitanti, dell’Indonesia, con 268 milioni, degli Stati Uniti, con 327 milioni. Allo stesso modo, il voto ad esempio della Turchia, che nel triennio 2019-2021 in corso contribuisce al bilancio dell’organizzazione per l’1,3 per cento, vale quanto quello della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, che provvedono rispettivamente in ragione del 4,5 e del 22 per cento. 

Il contributo dovuto da ognuno dei 193 Stati membri dipende dal reddito nazionale lordo, dal debito estero e dal Pil pro capite e, per evitare l’influenza eccessiva di uno stato, non può superare il 22 per cento del bilancio, tetto raggiunto solo dagli Stati Uniti seguiti a distanza dalla Cina con il 12 per cento. Ai Paesi meno sviluppati si applica un tetto massimo dello 0,01 percento, con un minimo dello 0,001 per cento. Sembrerebbe un criterio ragionevole, se non fosse che fino al 2017 tra i Paesi meno sviluppati figuravano persino l’Angola, secondo produttore africano di petrolio, risorsa che ha fruttato al presidente José dos Santos (in carica dal 1979 al 2017) il primato di capo di stato africano più ricco e a sua figlia Isabel quello di prima donna africana miliardaria, e la Guinea Equatoriale che vanta un reddito pro capite nominale di 31.758 dollari. Ma in realtà Teodoro Nguema, presidente della repubblica dal 1979, e la sua famiglia prosciugano parte dei notevoli proventi ricavati dal petrolio concedendosi lussi sfarzosi come le decine di macchine Bugatti di cui uno dei rampolli, Teodolin, fa collezione. 

Finora si è parlato dei contributi obbligatori che consentono all’Onu di esistere. Ma le agenzie delle Nazioni Unite così come le missioni di peacekeeping hanno bilanci a parte che richiedono ulteriori finanziamenti. I contributi in questo caso sono volontari, non esistono limiti né minimi né massimi alla generosità degli stati e sono ammessi doni da parte di privati e di altri organismi internazionali. 

Le agenzie Onu insieme alle organizzazioni non governative sono le protagoniste della cooperazione internazionale: quella allo sviluppo, a cui collaborano ad esempio il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, e quella cosiddetta umanitaria, che interviene sia in situazioni di crisi sia per prevenirle, e conta soprattutto su Unicef, il Fondo per l’infanzia, Pam, il Programma alimentare mondiale, Unhcr, l’Alto commissariato per il rifugiati, e Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Si tratta di bilanci miliardari: ma, su 193 Paesi membri, quelli che permettono alle agenzie di svolgere le loro attività si contano più o meno sulle dita delle mani e i grandi donatori, stati e privati, sono occidentali. 

Prendiamo il caso dell’Unhcr. L’87 per cento dei fondi di cui dispone l’agenzia, sotto il cui mandato vivono circa 60 milioni di persone tra rifugiati e sfollati e che per il 2020 ha presentato un preventivo di 8,6 miliardi di dollari, provengono ogni anno da Stati Uniti, Unione europea e Paesi europei. Nel 2019 gli Stati Uniti hanno donato 1,6 miliardi di dollari, l’Unione europea 478 milioni, la Germania 198, la Svezia quasi 138. L’esame dell’elenco dei donatori riserva sorprese. La Turchia, ad esempio, è 67esima. Ha versato all’Unhcr 300.000 dollari, più 18 offerti da un donatore privato. L’Unione Africana è al 79esimo posto, con un contributo di 100.000 dollari nonostante che i suoi Paesi membri “producano” milioni di profughi interni e rifugiati. 

L’Oms, di cui si parla in questi giorni, nel biennio 2018-2019 ha ricevuto 5,6 miliardi di dollari: 839 milioni dagli Stati Uniti, 434 dalla Gran Bretagna, 292 dalla Germania, 59 dall’Italia, 131 dalla Commissione Europea. Dopo quello Usa il secondo maggior finanziamento, 530 milioni di dollari, è stato offerto dalla Bill & Melinda Gates Foundation. La Cina ha versato 85 milioni.

Le donazioni, almeno quelle pubbliche trattandosi di denaro dei contribuenti, richiedono un preciso rendiconto di come il denaro viene speso e con quale esito. All’Onu, in sede Ue, in Parlamento a questo si dovrebbero dedicare delle sessioni, e magari anche approfittarne per ringraziare i donatori. Non succede. Anzi, l’Alto commissario per i rifugiati Filippo Grandi non perde occasione per accusare i Paesi europei e gli altri stati occidentali di indifferenza, per sollecitarli a più contributi, per portare a esempio i Paesi poveri “assai più generosi” e disposti ad accogliere… ben sapendo, data la sua carica, che i governi dei Paesi poveri ospitano dei rifugiati solo a condizione di ricevere congrui finanziamenti e che tutt’al più il disagio è per le popolazioni alle quali è imposta la presenza dei profughi; ben sapendo, soprattutto, da dove provengono la maggior parte dei fondi di cui la sua agenzia dispone.

In questi giorni, tutto il mondo è alle prese con la pandemia che la Cina ha provocato omettendo di informare il resto del mondo di quanto accedeva a Wuhan. L’amministrazione Usa ritiene che l’Oms, devota alla Cina più che al bene comune, abbia la sua parte di responsabilità e quindi sospende i fondi per 60 o forse 90 giorni. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell, il presidente dell’Unione Africana Cyril Ramaphosa e altre personalità politiche protestano che non è il momento di ridurre le risorse dell’Oms, che bisogna unire le forze per superare la crisi, non creare divisioni. Mosca definisce quello Usa “un approccio egoista”. Pechino richiama Washington “ad adempiere ai propri doveri” nei confronti dell’Oms.

È tempo di riflettere sul significato e sul valore di contributi volontari, elargiti a titolo di dono. Se l’uso che ne fanno le agenzie delle Nazioni Unite, in questo caso l’Oms, non coincide con le intenzioni, con i valori, con gli interessi dei donatori, questi hanno il diritto, se è denaro pubblico il dovere, di chiederne conto ed eventualmente interrompere i finanziamenti. I donors dell’Unhcr lo fanno di continuo, ad esempio quando si scopre che i politici e i funzionari a cui i fondi sono affidati se ne intascano una parte. Il Programma alimentare mondiale il 10 aprile ha annunciato che è costretto a dimezzare gli aiuti in Yemen per mancanza di fondi: dei donatori hanno sospeso i finanziamenti al Paese, dove è in corso forse la peggiore crisi umanitaria del pianeta, perché nelle zone sotto il loro controllo le forze antigovernative Houthi impediscono la distribuzione degli aiuti. Gli Houthi rispondono accusando chi gestisce il Pam in Yemen di corruzione e mala gestione.

Gli Usa sono i maggiori finanziatori dell’Onu, dell’Oms, dell’Unhcr e di altre agenzie. Hanno ragione a usare l’arma dei finanziamenti per farsi valere. Mancheranno dei fondi. Che intervengano i tanti Paesi che finora hanno offerto contributi piccoli o addirittura irrisori; perché no, incominciando dalla Cina.

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