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Trump, Kim e il cinema della politica

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Ci voleva un presidente futurista per aggiornare il sistema operativo dell’ultima dittatura novecentesca? Di Trump abbiamo letto, sottolineato e ripetuto ad alta voce che è greve, impresentabile, impreparato; che ha il quoziente intellettivo di un bambino di sei anni, ma una capacità di concentrazione inferiore e non sa leggere documenti più lunghi di una cartella; che è ossessionato dai media e passa le giornate a guardare la tv o, se lo zapping non lo gratifica, a fare il grosso su Twitter; che preferisce il golf alle riunioni e si fa manovrare da spin doctor e familiari, salvo poi licenziarli e disconoscerli al primo diverbio, sicché la sua compagine governativa ha un’aspettativa di vita media inferiore a quella degli assessori della Raggi; che pensare a uno così alla Casa Bianca, insomma, fa un po’ senso – e indubbiamente c’è del vero: per parte mia, aggiungerei che uno che annoda la cravatta in quella maniera non dovrebbe dirigere neanche un McDonald’s a Cheyenne, Wyoming. Tuttavia, è forse il momento di confessarci che la prodigiosa ignoranza di Trump in materia di grammatica istituzionale presenta anche qualche vantaggio.

La sua ultima fatica filmica illustra il punto luminosamente. Se, infatti, lo storico incontro con Kim Jong-un, celebrato a Singapore nei giorni scorsi, implicava di per sé un azzardo tanto oneroso – l’offerta di lievito per la legittimazione interna ed esterna del despota, a fronte d’impegni ancora vaghi e, per giunta, già sul tavolo da vent’anni – che nessun altro politico al suo posto avrebbe eguagliato la puntata, il video con cui il dealmaker-in-chief ha inteso accattivarsi la controparte mi appare nella sua incongruenza come una trovata di genio che merita una riflessione ulteriore – e una recensione entusiastica. In primo luogo, per l’originalità del proposito: la suggestione di un Trump che si presenta al tavolo delle trattative con il proiettore sotto il braccio è talmente aliena al galateo diplomatico da non poter che generare ammirazione. In secondo luogo, per l’ispirazione: come allettare un ragazzotto egomaniaco e obeso di Pyongyang, se non facendone il protagonista di un film d’azione dal finale glorioso? Infine, per l’esecuzione: era dai tempi di “Morning in America” – lo spot con cui Reagan si preparò la rielezione torrenziale alle presidenziali del 1984 – che la cinematografia politica non offriva una professione d’ottimismo tanto efficace.

Cambia la cifra stilistica, naturalmente: al sobrio pragmatismo del messaggio del Gipper subentra l’estetica chiassosa del miliardario newyorkese: il lettering metallico delle sovrimpressioni, i toni solenni e i proclami altisonanti (“due uomini, due [cari] leader, un solo destino”), le immagini rutilanti di un avvenire ad alta risoluzione (nel rimpallo con il bianconero dell’attualità) in cui il buio lascia il posto alla luce e i missili cedono il passo allo sviluppo economico…; ma, al di là delle considerazioni estetiche, la diplomazia hollywoodiana di Trump – nel filmato appare anche uno scatto con Stallone in occasione della grazia postuma al pugile Jack Johnson, a cui la casa di produzione di Rocky dedicherà un biopic: e chissà che il presidente non riesca a spuntarvi un cammeo – finisce per esportare una morale assimilabile: perché il mattino non dovrebbe poter tornare anche in Corea del Nord? Perché non scommettere sull’integrazione del paese nell’ecosistema della penisola, dell’area, del mondo?

Si tratta di un leitmotiv in senso lato progressista che, privilegiando la carota al bastone, contrasta con il consueto tono muscolare dell’odierna Casa Bianca e che potrebbe persino indurre al riso per via di un certo retrogusto naif nella santificazione dei due protagonisti – sul finire del video, un… sottopancia fa dire all’esile Kim “non dovremo più tirare la cinghia” – ripresi in innumerevoli festanti saluti. Sul successo dell’opera, naturalmente, occorre per il momento sospendere il giudizio: non sappiamo dire se il filmino avvicinerà Trump più al Nobel per la pace o all’Oscar per il miglior film o magari persino all’inaudita doppietta, ma abbiamo l’impressione che il suo sogno coreano non sia un teatrino. La politica internazionale, oggi, va al cinema: dribblate gli spoiler e passate i pop-corn.

*Massimiliano Trovato, research fellow Istituto Bruno Leoni