È una guerra di nervi, e lo sarà per molto tempo, tra Stati Uniti e Iran. L’escalation scongiurata dopo l’abbattimento di un drone Usa sullo Stretto di Hormuz, in acque internazionali, per mano dei Pasdaran, suggerisce che i nervi non sono saltati alla Casa Bianca, mentre a Teheran si respira aria di esasperazione. Soprattutto tra chi è più colpito, direttamente e indirettamente, dalle sanzioni americane, come i Pasdaran appunto, che si ritrovano meno soldi in cassa per le loro operazioni di destabilizzazione all’estero. Non da escludere che sia gli attacchi alle petroliere che l’abbattimento del drone per gli iraniani avessero lo scopo di mettere pressione alla comunità internazionale in vista del G20 di Osaka, di indurre gli altri contraenti dell’accordo sul nucleare (JCPOA), Cina, Russia e Paesi Ue, a pressare Trump.
Ieri via Twitter il presidente Trump ha confermato di aver fermato all’ultimo momento il raid di rappresaglia contro alcuni obiettivi militari iraniani, come poche ore prima aveva rivelato il New York Times.
“Lunedì hanno abbattuto un drone senza pilota in volo su acque internazionali. La scorsa notte eravamo pronti ‘carichi e armati’ a reagire su tre diversi siti, quando ho chiesto quanti sarebbero morti: ‘150 persone, signore’, è stata la risposta di un generale. 10 minuti prima del raid l’ho fermato. Non era proporzionato all’abbattimento di un drone senza pilota”.
Non sappiamo con certezza se ci siano state altre valutazioni all’origine del ripensamento di Trump, ma certamente la sua è una spiegazione efficace sotto due punti di vista. Quello interno: risponde a una base jacksoniana contraria a nuove avventure militari, che anzi lo ha votato proprio per la sua promessa di non farne. E quello esterno: ribadisce implicitamente a Teheran la “linea rossa”, l’uccisione di soldati americani.
C’erano buoni argomenti sia a favore che contro un’azione di rappresaglia, ma questa volta il presidente Trump ha deciso di soprassedere. Da una parte non reagire rischia di incoraggiare Teheran sulla strada delle provocazioni che, seppure senza perdita di vite umane, contribuiscono all’instabilità nella regione e nello Stretto di Hormuz, strategico snodo di transito delle linee commerciali, e se impunite, minano la credibilità della deterrenza Usa. Questi con ogni probabilità gli argomenti a favore del raid usati, l’altra sera, dal segretario di Stato Pompeo e dal consigliere per la sicurezza nazionale Bolton. Se le provocazioni iraniane hanno come obiettivo dimostrare che Trump è una “tigre da Twitter”, allora il presidente rischia di uscire indebolito se non risponde.
D’altra parte, la decisione del presidente di annullare il raid toglie ogni pretesto, ogni alibi a Teheran, ai “falchi” del regime, e mostra che non è la Casa Bianca a cercare una escalation. Più si mostra moderato e cauto davanti alle provocazioni iraniane, più sarà capace di ottenere il supporto dell’opinione pubblica a un’azione militare quando ne ravviserà la necessità. E forse anche gli europei apriranno gli occhi sulla natura di stato “canaglia” della Repubblica Islamica – o almeno dovranno arrendersi all’evidenza.
Ma dalla serie di tweet di Trump si intuiscono anche altre ragioni oltre a quella della non proporzionalità del raid: l’intenzione di restare concentrato su quella strategia della “massima pressione” che sta funzionando, senza farsi deviare su un’altra strada, con il rischio di fare il gioco di Teheran allo scopo di uscire dall’angolo.
“Non ho fretta, le nostre Forze armate sono ricostruite, nuove, pronte ad agire, di gran lunga le migliori del mondo. Le sanzioni stanno mordendo e altre sono state aggiunte la scorsa notte. L’Iran non potrà mai avere armi nucleari, non contro gli Stati Uniti e non contro il mondo… Sono molto indeboliti oggi rispetto all’inizio della mia presidenza. Sono in bancarotta”.
Il presidente ha fiducia nella strategia della “massima pressione” e al momento, almeno finché Teheran non oltrepassa una linea rossa, non vuole allontanarsene. Tanto più che tra una risposta militare e una non risposta, ha a disposizione altre opzioni per intensificare la pressione su Teheran. Piuttosto che reagire in modo sproporzionato a una provocazione di entità minore, ben calcolata da parte iraniana, preferisce mantenere e accrescere la pressione aspettando, semmai, che sia Teheran a sbagliare i suoi calcoli. E semmai, ben più gravi dell’abbattimento di un drone, sono gli attacchi alle due petroliere solo qualche giorno prima e la minaccia alla libera navigazione nello Stretto di Hormuz.
La pensano così anche alcuni analisti e studiosi ritenuti “falchi” con l’Iran (neocon, direbbe qualcuno).
“Non abboccare, né abbassare la guardia”, suggerisce Mark Dubowitz, direttore esecutivo della Foundation for Defense of Democracies, al presidente Trump. “Massimizza la pressione economica. Proteggi le vie commerciali marittime. Non cadere nella trappola dell’escalation tesa dal regime. Non giocare di rimessa né farti distrarre. Rendi chiaro che è Khamenei è il supremo ostacolo al negoziato. Più provocazioni isoleranno ancora di più Teheran”.
“Se qualcuno a destra vuole bombardare il regime e qualcuno a sinistra vuole una de-escalation, o meglio capitolare”, meglio non abboccare, massimizzare la pressione e “lasciare aperte le porte sia dei negoziati che di azioni ulteriori se necessarie”. “Gli Stati Uniti hanno molte opzioni contro il regime. Ma dovrebbe dipendere dal nostro programma, non il loro, e come parte di una campagna di pressione complessiva e mirata”.
Sulla stessa linea Michael Rubin, resident scholar dell’American Enterprise Institute:
“Essenziale mantenere la pressione sull’Iran senza fare il gioco di un regime che potrebbe volere un conflitto. Speriamo che Trump sia abbastanza saggio da consentire alla sua campagna della massima pressione di funzionare, senza né concedere a Teheran un’uscita diplomatica, né ricorrere alla forza militare che si ritorcerà contro nel lungo termine”.
“La pressione può funzionare sull’Iran”, spiega Rubin, autore del libro “Dancing with the Devil”, portando diversi esempi.
“Quelli che stiamo osservando potrebbero essere gli spasmi finali della Repubblica islamica. È in una tempesta perfetta e le sanzioni hanno ferito la loro economia. Le speranze di Teheran che i Paesi europei e asiatici avrebbero ignorato le sanzioni Usa sono state deluse, poiché gli imprenditori pensano di non poter rischiare sanzioni Usa, a prescindere da ciò che desiderano i loro governi. Politici e diplomatici commerciano in parole, ma le imprese sono obbligate verso i loro azionisti e i risultati economici”.
Rubin suggerisce quindi di non cedere alla diplomazia, né di cadere in un conflitto – certo, a meno che Teheran non oltrepassi qualche linea rossa. Mantenere la pressione e lasciare che l’economia iraniana continui ad affondare. Improbabile che il regime possa cedere e tornare al negoziato con gli Usa in pochi mesi: non prima di vedere se Trump viene o meno rieletto nel 2020 (sempre che il regime ci arrivi…). Ma nel frattempo, non bisogna concedergli vie d’uscita.