Perché il ritiro dalla Siria annunciato da Trump non è paragonabile a quello catastrofico di Obama dall’Iraq

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Alcuni critici dell’attuale amministrazione Usa hanno paragonato la decisione del presidente Trump di ritirare i suoi soldati dalla Siria al ritiro dall’Iraq deciso nel 2011 dall’ex presidente Obama. Paragonare i due ritiri è però assolutamente improprio, non solo a livello numerico – radicalmente diverso (in Iraq parliamo di decine di migliaia di soldati) – ma soprattutto a livello politico e geopolitico.

Sui numeri, ovviamente, non serve neanche soffermarsi: in Siria, come noto, parliamo di duemila soldati americani, inquadrati in una incontestata missione internazionale contro lo Stato islamico e impiegati soprattutto al sostegno dell’opposizione siriana, in particolare dei curdi inquadrati nelle Syria Democratic Forces (insieme ai curdi ci sono anche altri combattenti di altre minoranze siriane). Il ritiro americano dall’Iraq, iniziato sin dal 2007, coinvolse migliaia di militari americani, sparsi in tutto il Paese, in una missione fortemente contestata a livello internazionale e soprattutto in un contesto dove le forze americane – dopo la caduta di Saddam – dovevano garantire la sicurezza nazionale irachena. L’Iraq lasciato da Obama era ancora un Paese martoriato dal terrorismo: nel solo 2011 gli attentati furono oltre 2265 (nel 2014 raggiunsero i 3370). A tal proposito va ricordato che, ad oggi, in Iraq sono presenti 5200 soldati americani, parte della coalizione anti Isis che, recentemente in una visita a sorpresa in Iraq, il presidente americano Trump ha negato di voler ritirare.

La vera differenza tra i due ritiri, però, riguarda la politica e la geopolitica: nel conflitto siriano, proprio per volontà di Obama, gli Stati Uniti non sono mai entrati veramente. È servito un nuovo Califfato – dopo quello iraniano – e delle teste mozzate in mondovisione, per convincere Washington ad agire. Una azione che è totalmente mancata quando il regime siriano ha usato le armi chimiche contro i ribelli (azione davanti alla quale, al contrario, il presidente Trump reagì nell’aprile del 2018). Diverso sarà anche l’effetto che il ritiro dalla Siria potrebbe produrre nei prossimi mesi.

Il ritiro iracheno rappresentò una manna per il regime iraniano: l’intervento americano del 2003, come noto, eliminò il regime fascista di Saddam Hussein e nessuno qui lo rimpiange. Saddam, come noto, era un nemico giurato dell’Iran e a Teheran – presidente dell’epoca Khatami – guardarono inizialmente positivamente all’intervento americano. La permanenza delle truppe americane in Iraq e il successo della tattica di Petraeus contro al-Qaeda, però, mutarono la visione iraniana: nell’ottica di Teheran, infatti, gli Usa avrebbero eliminato Saddam e il terrorismo jihadista avrebbe reso agli americani la vita impossibile in Iraq. Per queste ragioni – come provato – proprio l’Iran sciita e khomeinista, aiutò i terroristi sunniti di al-Qaeda, garantendo loro anche un free pass sul territorio iraniano (ma d’altrone, ormai è noto, i contatti tra Iran-Hezbollah e Bin Laden risalgono agli anni ’90, quando Bin Laden risiedeva in Sudan). Il ritiro americano dall’Iraq, in pochi mesi, abbandonò a loro stessi i sunniti iracheni – consegnandoli nelle mani dell’Isis – e permise agli iraniani di penetrare agevolmente nella provincia sciita dell’Iraq, unico territorio che davvero Teheran può conquistare facilmente, essendo geograficamente totalmente pianeggiante (conquistando anche i centri religiosi chiave dello sciismo, come Najaf e Kerbala, dove in questi anni solo al-Sistani ha impedito il dilagare della versione khomeinista dello sciismo). Non solo: il ritiro americano del 2011 avvenne quando il premier iracheno era al-Maliki, un politico che portò avanti una strategia di totale esclusione dei sunniti dalla vita politica del Paese e di totale sostegno a Teheran (una strategia che provocò proteste in tutto l’Iraq, favorendo non solo la crescita di Isis, ma anche la sostituzione di al-Maliki con al-Abadi).

Il ritiro americano dalla Siria – piaccia o meno non importa – non potrà avere alcuno di questi effetti. In primis, perché la presenza americana in Siria, purtroppo, non ha mai contenuto l’espansione iraniana (e delle milizie sciite) in quel Paese. Non a caso, Israele ha dovuto raggiungere un fragilissimo accordo con la Russia per evitare di entrare direttamente nel conflitto e di poter reagire al trasferimento di armi iraniane verso Hezbollah.

Geopoliticamente parlando, il ritiro americano potrebbe avere anche effetti positivi in chiave Nato: la Turchia, infatti, dovrà sviluppare una strategia ad hoc per contenere la presenza degli odiati curdi siriani, molto vicini al PKK turco. In quest’ottica – come già avvenuto – Erdogan dovrà giungere ad un compromesso con Putin, ma resterà comunque un accordo di convenienza, fondato sul sospetto reciproco. Più di Mosca, Erdogan vorrà contenere Teheran, che potrebbe provare ad usare Assad e i curdi per aumentare la sua espansione in Siria. Ergo, il ritiro americano dalla Siria potrebbe anche favorire un ritorno del protagonismo turco nella Nato e, indirettamente, un nuovo dialogo tra Israele e Turchia. Dialogo che potrebbe estendersi a Grecia e Cipro, con risvolti anche nel settore del gas scoperto nel Mediterraneo e importante per la diversificazione degli approvvigionamenti europei.

Tutto questo, va ribadito, resta nel campo del possibile e non del certo. Nessuno è un mago e l’analisi geopolitica, per quanto fondata sulla serietà analitica, non è una scienza esatta e può riservare numerose sorprese, anche negative. Quanto detto sinora, però, dimostra chiaramente l’infondatezza di ogni paragone tra il ritiro obamiano dall’Iraq del 2011 e quello trumpiano del 2018 dalla Siria. Paragonarli, è utile unicamente a chi prova – fallendo costantemente – a salvare la faccia all’ex presidente Obama, autore di una strategia che voleva portare in Medio Oriente un equilibrio del terrore e che, alla fine, ha unicamente favorito il regime iraniano. Qui non siamo nel campo del possibile, ma del certo. È certo che Barack Obama sia stato un male per il Medio Oriente e per l’Occidente. Purtroppo solo un cieco perbenismo mogheriniano rifiuta ancora di ammetterlo, cercando di favorire, guarda caso, ancora una volta l’Iran.

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