Suonano sempre la stessa musica – stonata – i media mainstream, old e new, quando si tratta di riportare e commentare le decisioni del presidente Trump, in particolare quelle che riguardano la Nato e l’Europa. Ecco il disimpegno dall’Alleanza Atlantica, vuole abbandonare gli alleati europei, fare un favore alla Russia, e via dicendo.
Così è stata letta nei giorni scorsi la decisione di ritirare 9.500 soldati Usa dalla Germania entro settembre, quindi in tre mesi, riportata dal Wall Street Journal – non ancora ufficializzata né comunicata agli alleati e alla Nato, ma confermata mercoledì a Bild da Richard Grenell, ambasciatore Usa a Berlino dimissionario. Il ritiro parziale sarebbe previsto da un memorandum firmato dal consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Robert O’Brien. Considerando che attualmente sono 34.500 i militari americani in servizio sul territorio tedesco, si tratterebbe di una riduzione di oltre il 25 per cento. Lo stesso memorandum fisserebbe a 25 mila il numero massimo di soldati impiegabili in Germania (resterebbe comunque il contingente più numeroso in Europa), mentre il tetto attuale è di 52 mila, quindi la riduzione teorica sarebbe del 50 per cento. Più che un danno economico per le comunità locali tedesche che ospitano migliaia di famiglie americane, lo smacco per Berlino è politico.
“Una minaccia strategica ed economica per la Nato e tutti gli alleati europei”, ha bollato la decisione Paolo Mastrolilli, corrispondente dagli Usa per La Stampa.
A ben vedere, pare che da questa parte dell’Atlantico ci si preoccupi di non indebolire la Nato e l’Occidente solo quando si tratta delle decisioni e delle prese di posizione della Casa Bianca. Mai che si valuti l’impatto sui rapporti transatlantici delle scelte di politica estera e di sicurezza, o delle incaute dichiarazioni, che provengono da Bruxelles e dalle principali capitali europee – Berlino, Parigi e Roma. Il presidente francese Macron che parla di “morte cerebrale” della Nato, ammettendo che non sarebbe disposto a difendere uno degli alleati, la Turchia, da un’aggressione russa; o la cancelliera Merkel, secondo cui l’Europa “deve fare da sola”, perché “non possiamo più contare su americani e inglesi come alleati affidabili”; per non parlare della politica filo-iraniana e anti-israeliana dell’Ue…
A parole, quando arrivano le sberle di Trump, i partner europei si ricordano improvvisamente di essere atlantisti, paventano il disimpegno Usa, mettono in guardia dalla minaccia russa, mentre nei fatti, come vedremo tra breve, sono i primi con le loro scelte (e non scelte) a erodere la capacità di deterrenza dell’Alleanza e a flirtare con le potenze rivali, Cina e Russia.
Alcuni hanno visto nella decisione del presidente Usa di ridurre le truppe in Germania una ritorsione per il rifiuto della cancelliera Merkel di essere presente di persona al summit G7 che si sarebbe dovuto tenere a Camp David, negli Stati Uniti, proprio in questi giorni. Un rifiuto, ufficialmente motivato dalla gravità dell’emergenza Covid-19, che ha indotto Trump a rinviare l’appuntamento a settembre, ma soprattutto ha impedito al presidente americano di aumentare ulteriormente la pressione su Pechino mettendo fin da ora sul tavolo dei grandi le gravi responsabilità del regime comunista cinese nella diffusione globale del virus, oltre che la stretta su Hong Kong.
Ma Trump ha rilanciato, manifestando l’intenzione di invitare al G7 di settembre (prerogativa della presidenza di turno) anche Corea del Sud, India e Australia – tutte medie potenze del quadrante “indo-pacifico” ostili a Pechino – e la Russia, esclusa dal 2014 come sanzione per l’annessione della Crimea. Non perché sia “più morbido nell’approccio con Putin”, o per “interessi personali inconfessabili”, come insinua La Stampa. Reintegrare la Russia significherebbe provare a sganciarla dall’orbita di Pechino. Se negli anni ’70 l’intuizione di Kissinger fu di aprire alla Cina per evitare la saldatura di un asse con l’Unione Sovietica, oggi che il principale rivale strategico non è più Mosca ma Pechino, l’operazione sarebbe la stessa ma a ruoli invertiti: sottrarre la Russia all’abbraccio cinese.
Dalla prospettiva di un G2 Usa-Cina, che sembrava inevitabile soltanto qualche anno fa, all’embrione di un nuovo formato, G11, con la Cina unica potenza a restarne fuori. L’idea a Washington è di farne una sorta di concerto internazionale per contenere le ambizioni egemoniche di Pechino. Per il presidente di “America First”, il G7 è un consesso utile fintanto che risponde all’interesse nazionale Usa, mentre per gli europei è la massima espressione del multilateralismo, che però appare sempre più fine a se stesso, incapace di decisioni e superato dagli eventi, dal ritorno della competizione tra grandi potenze.
Ma se in questo nuovo corso l’Anglosfera si va compattando, come mostra la dichiarazione congiunta su Hong Kong di Usa, Canada, Regno Unito e Australia, questa nuova Guerra Fredda è vissuta con grande imbarazzo dall’Ue a guida tedesca, che ha investito molto nel rapporto con Pechino, sia dal punto di vista economico che politico – inseguendo l’idea velleitaria (e pericolosa) di un’autonomia strategica da ritagliarsi proprio nell’equidistanza tra Usa e Cina.
E mette in grande difficoltà soprattutto la Germania, che da una parte non può fare a meno dell’ombrello Nato per la sua difesa (cioè di “scroccare” sicurezza dai contribuenti americani), ma dall’altra ha bisogno anche di uno stretto rapporto con la Cina, rispetto alla quale la sua economia è particolarmente esposta. Come ricordato da Francesco Galietti su Panorama, nel suo recente discorso alla Fondazione Adenauer, davanti agli esponenti del suo partito, la cancelliera ha spiegato che le giustificate preoccupazioni per i diritti umani non sono motivo sufficiente per compromettere i rapporti con la Repubblica Popolare, che anzi vanno preservati ad ogni costo, soprattutto ora che Washington e Pechino sono ai ferri corti.
Non sorprende quindi che sia proprio la Germania, tra i Paesi del G7, a mostrarsi più insofferente per il confronto a tutto campo aperto dall’amministrazione Usa con Pechino. Facendo saltare il summit di giugno, la Merkel ha essenzialmente comprato tempo, facendo un grande favore al presidente Xi Jinping ed evitando di dover sottoscrivere un documento che comunque non avrebbe spianato la strada del dialogo sino-tedesco. Più tensioni, meno margini di manovra.
Non è un caso naturalmente che il vertice Ue-Cina di Lipsia, inizialmente convocato per metà settembre, sia stato rinviato. La Merkel punta a tenerlo comunque entro fine anno, quindi entro il semestre di presidenza tedesca dell’Ue, ma dopo le elezioni presidenziali americane, tra fine novembre e inizio dicembre. Non solo perché il negoziato con Pechino per l’accordo sugli investimenti presenta obiettivamente non pochi ostacoli. Ma anche perché spera di trovare un nuovo inquilino alla Casa Bianca. Con Joe Biden, infatti, si aprirebbe una prospettiva di progressivo allentamento delle tensioni Usa-Cina e Berlino potrebbe puntare ad un risultato più ambizioso nel dialogo con Pechino senza irritare Washington.
Non riteniamo, come molti pensano, che la contrapposizione Usa-Cina di questi ultimi anni sia destinata a proseguire chiunque si troverà alla Casa Bianca la mattina del prossimo 4 novembre. Certo, la rivalità tra le due potenze è ormai iscritta nella storia di questo secolo, ma Biden punterebbe ad una normalizzazione, a riprendere i rapporti con Pechino laddove li aveva lasciati Obama: engagement, sebbene in chiave competitiva, non una nuova Guerra Fredda. La questione diritti umani verrebbe relegata a iniziative più che altro simboliche del Congresso e a qualche inchiesta del New York Times. E la presidenza Trump sarebbe ricordata come una parentesi con qualche fastidioso strascico. Che l’engagement sia il modo più efficace per contenere l’ascesa della Cina è tutto da vedere, anzi si direbbe di no a giudicare dalle aspettative disattese negli ultimi vent’anni, dal suo ingresso nel WTO, ma è questa la strada su cui fatalmente tornerebbe Biden se eletto, l’unica che conosce fin troppo bene, anche se in campagna elettorale non potrà esimersi dall’apparire duro con Pechino.
Viceversa, se Trump dovesse essere rieletto, la contrapposizione diverrà strutturale. E già oggi l’amministrazione Trump si aspetta dagli alleati europei, Germania in testa, un riallineamento, il rinnovo di una scelta di campo, e dalla Nato che si focalizzi sulla minaccia cinese. Il cyberspazio, le infrastrutture critiche, la crescente potenza militare di Pechino, come ha spiegato il segretario Stoltenberg alla Bbc, sono tutte questioni da affrontare, mentre gli alleati europei sembrano ancora ignorarle. Eloquenti le recenti dichiarazioni di Josep Borrell, Mr Pesc, secondo cui i cinesi “non hanno ambizioni militari, non vogliono usare la forza e partecipare a conflitti militari”, quando il continuo aumento della spesa militare, le minacce di invasione di Taiwan e le provocazioni nel Mar cinese meridionale o al confine con l’India testimoniano esattamente il contrario.
Terze vie non sono tollerate. Gli Stati Uniti hanno sostenuto fin dalla sua nascita il progetto europeo perché un’Europa occidentale coesa e prospera avrebbe potuto meglio resistere all’influenza e alla minaccia del rivale strategico del XX secolo, l’Unione Sovietica. Così come la riunificazione tedesca non sarebbe stata possibile senza il sostegno americano. È quindi inaccettabile ora per Washington vedere l’Europa scivolare tra le braccia del suo rivale strategico del XXI secolo.
Questo non vuol dire che la riduzione della presenza militare Usa in Germania sia una ritorsione per lo sgarbo della Merkel, sarebbe una motivazione troppo estemporanea e in realtà si parla da tempo di un ridimensionamento (semmai, può esserlo che la notizia sia filtrata proprio in questi giorni), ma certamente la Ostpolitik di Berlino verso Pechino (e verso Mosca, come vedremo) è uno dei principali motivi di irritazione del presidente Trump nei confronti della leadership tedesca. Se qualche giorno fa Bloomberg titolava “Trump is undermining Merkel as she tries to stand up to Putin”, è vero quasi l’opposto: “Merkel is undermining Trump as he tries to stand up to Xi”.
Un altro motivo di forte irritazione della Casa Bianca è che Berlino continua a disattendere l’impegno a spendere il 2 per cento del Pil nella difesa e non ha ancora un piano per raggiungere l’obiettivo nell’arco dei prossimi anni. Il presidente Trump, con ancora maggiore durezza rispetto ai suoi predecessori, ha sollevato il tema in diverse occasioni, avvertendo che l’America non è più disposta a sobbarcarsi un onere ingiusto, squilibrato, per la difesa di nazioni alleate tra l’altro molto ricche. Messaggio che l’ambasciatore Grenell ha recapitato a Berlino più volte con grande chiarezza negli ultimi anni.
Goccia che può aver fatto traboccare il vaso della pazienza americana, la richiesta avanzata in un dibattito al Bundestag dall’SPD – il partito socialdemocratico tedesco che esprime il ministro degli esteri, Heiko Maas, nel governo di coalizione guidato dalla Merkel, e che è su posizioni filorusse – per il ritiro delle armi nucleari Usa dislocate in Germania nell’ambito del sistema di dissuasione nucleare della Nato. Una mossa che Grenell, in qualità di direttore dell’Intelligence Nazionale Usa, ha interpretato nei giorni scorsi come la volontà da parte del governo tedesco di minare la capacità di deterrenza della Nato.
D’altra parte, le ambiguità di Berlino con Mosca erano state denunciate apertamente dal presidente Trump in persona già al vertice Nato del luglio 2018: “La Germania è prigioniera della Russia sull’energia e noi dovremmo proteggerla dalla Russia? Ce lo spieghi”. “Molto triste che la Germania concluda un imponente accordo su gas e petrolio con la Russia, pagandole miliardi su miliardi di dollari l’anno, quando si suppone che noi dovremmo proteggerla dalla Russia. Non ha senso”.
Proprio la settimana scorsa, alcuni senatori sia Repubblicani che Democratici hanno chiesto un inasprimento delle sanzioni Usa già in vigore contro le aziende impegnate nel completamento del Nord Stream 2, il gasdotto che raddoppierebbe le capacità di trasporto di gas dalla Russia alla Germania, aumentando la dipendenza energetica di quest’ultima, e dell’Europa intera, da Mosca.
No, l’amministrazione Trump non intende abbandonare l’Europa, se non altro perché non intende certamente regalarla alla Cina, che sul Vecchio Continente ha in modo ormai evidente lanciato un’Opa.
Non saremmo sorpresi però, se almeno una parte di quei 9.500 soldati americani richiamati dalla Germania fossero dislocati in Polonia, mantenendo così, anzi accrescendo, e non allentando, la pressione sulla Russia. Gli Stati Uniti hanno già avviato un consistente rafforzamento della loro presenza militare in Polonia, volto a incrementare la capacità di deterrenza nei confronti della Russia, e chissà che alcune migliaia di soldati non siano ora destinati a quel “Fort Trump” sul territorio polacco di cui si parla da qualche tempo. In fin dei conti, la Polonia rispetta l’impegno di spendere nella difesa il 2 per cento del Pil, mentre la ricca Germania lo disattende; compra gas americano, mentre Berlino lo compra da Putin; ha ordinato qualche decina di F-35, mentre i tedeschi non ne hanno voluto sapere e ora non vogliono nemmeno le armi nucleari Usa sul loro territorio.
Chi è, dunque, che indebolisce la Nato e il legame transatlantico, la Germania che ancora disattende l’impegno a spendere il 2 per cento del Pil nella difesa, che aumenta la sua dipendenza dal gas russo, che cerca una maggiore equidistanza dell’Europa tra Washington e Pechino, oppure il presidente Trump, che si limita a prenderne atto? Se la leadership tedesca non ritiene Cina e Russia delle minacce, tanto da esporre ad esse la sua economia e il suo fabbisogno energetico, perché preoccuparsi di qualche migliaio di soldati Usa in meno? O forse, a Berlino sanno fin troppo bene che il loro gioco è un azzardo geopolitico, sostenibile fintanto che avranno le spalle coperte dagli Usa?