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Turchia gigante con piedi d’argilla: una politica estera assertiva non può compensare a lungo la crisi economica

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Se c’è un Paese in Medio Oriente che in questo momento è un gigante con i piedi di argilla, quel Paese è sicuramente la Turchia di Erdogan. Sebbene Ankara abbia dimostrato una certa dose di spregiudicatezza in politica estera, in realtà sta attraversando un periodo di forti turbolenze interne di natura economica e finanziaria. Erdogan ha provato in tutti i modi a nascondere la polvere sotto il tappeto, intervenendo direttamente nelle decisioni della Banca Centrale. A novembre 2020, dopo il licenziamento del governatore Murat Uysal e la nomina al suo posto di Naci Agbal, il presidente turco sembra tornato parzialmente sui suoi passi. Agbal, infatti, sembra più un tecnocrate pro-mercato che poco apprezza l’interventismo politico nella politica monetaria.

Goldman Sachs stima che la Turchia abbia consumato nel solo 2020 circa 100 miliardi di dollari in valuta di riserva con il solo fine di proteggere la Lira dalla caduta libera. Alla fine, però, i precari fondamentali economici dello stato turco, anche e soprattutto dopo la crisi Covid, sono venuti a galla e la Lira ha registrato la peggiore performance tra le valute dei Paesi emergenti, perdendo nel 2020 il 30 per cento rispetto al dollaro. Sempre nel 2020, poi, c’è stato un sell-off di 7,5 miliardi di dollari dai bond turchi, la peggiore fuga di capitali dal 2015. Le performances tutt’altro che rosee dell’economia turca hanno avuto conseguenze anche sui sondaggi e nell’agosto 2020, quindi nel pieno della prima ondata del Covid, il supporto per l’AKP (il partito di Erdogan) è sceso dal 43 per cento delle elezioni parlamentari del 2018 fino al 31 per cento.

Dunque, il cataclisma economico che si affaccia sulla Turchia avrebbe dovuto portare a più miti consigli la politica estera di Erdogan. Invece così non è stato. Ankara è pesantemente intervenuta in Siria e ha continuato le operazioni militari contro i curdi in Iraq. Ha inoltre sostenuto militarmente l’Azerbaijan nel recente conflitto con l’Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh. Per non parlare del sostegno militare e logistico fornito al Governo di Accordo Nazionale di al-Serraj in Libia e delle tensioni con la Grecia per la questione delle acque territoriali e dei diritti di esplorazione nel Mediterraneo orientale.

La sensazione è che ormai Ankara faccia sempre meno affidamento sulla diplomazia e tenda sempre più ad una politica estera assertiva, per cui lo strumento militare boots on the ground diventa la prima opzione da percorrere.

L’interventismo turco è però sostenibile nel lungo periodo? L’economia turca ha raggiunto il suo apice nel 2013, con un Pil di 951 miliardi di dollari. Nel 2019 ha era scesa a quota 754 miliardi, una caduta libera di 200 miliardi di dollari, quasi quanto l’intera economia greca. La performance negativa dell’economia turca però non ha fermato le avventure militari di Erdogan, il cui scopo, più che centrare obiettivi di politica estera, è quello di stabilizzare e compensare l’instabilità interna. I continui conflitti in cui Ankara è coinvolta da protagonista servono al presidente turco per alimentare ulteriormente la dicotomia tra benessere economico e sicurezza, nonchè per contribuire ad un’immagine della Turchia come Paese messo sotto assedio dalle potenze occidentali e, di conseguenza, bisognoso della protezione offerta dal neo-Sultano. Nonostante le oscillazioni elettorali, il popolo turco ha sempre risposto positivamente alla narrazione proposta da Erdogan.

Una condotta simile può essere vantaggiosa nel breve periodo, portando molti dividendi politici, ma se la performanca economica turca continuerà sul sentiero della decrescita, sarà difficile immaginare un ruolo da vera potenza regionale assertiva per Ankara. Con buona pace per i sogni neo-ottomani di Erdogan.

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