Il 10 dicembre del 1991 – trent’anni or sono – nella città olandese Maastricht (sino ad allora famosa soprattutto per essere il luogo dove morì in battaglia il conte d’Artagnan che avrebbe ispirato A. Dumas padre) veniva raggiunto l’accordo sul Trattato che avrebbe messo fine alle tre Comunità europee istituite negli anni 50 e sulle loro ceneri avrebbe dato vita all’Unione europea. Le Comunità europee avevano contribuito (all’ombra della protezione militare fornita dalla Nato) a rendere praticamente inesistente il pericolo di un ulteriore conflitto armato tra i Paesi europei occidentali che erano stati protagonisti delle due guerre mondiali e, sfruttando prima gli aiuti postbellici e poi il rapporto privilegiato con i mercati americani, avevano consentito uno sviluppo senza precedenti del commercio intraeuropeo: in particolare il nostro Paese aveva raggiunto livelli di benessere, di istruzione e di vita sociale mai toccati in passato.
Guardando al nuovo scenario mondiale i leader europei in sostanza decisero che il modello della collaborazione internazionale tra stati indipendenti era da considerarsi inadeguato alla nuova epoca e scelsero di dare vita ad una struttura transnazionale, capace di sostituirsi alle decisioni dei singoli Paesi in maniera sempre più penetrante, e ciò in vista di una progressiva unificazione, in ipotesi prima monetaria ed economica e poi politica, che avrebbe dovuto portare alla creazione di un sistema federale, gli “Stati Uniti d’Europa”. L’Italia fu coinvolta pienamente in questo processo ed anzi ne fu influenzata in maniera decisiva: non per nulla (e molti storici collegano le due cose) il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica avvenne in sostanza in coincidenza con la firma ufficiale del Tratto di Maastricht (7 febbraio 1992). Per una curiosa ironia della storia la delegazione italiana era guidata da Giulio Andreotti, colui che rappresentava l’incarnazione vivente della prima Repubblica, quasi che il vecchio mondo in tal modo passasse idealmente le consegne a quello nuovo.
A trent’anni di distanza ci si deve chiedere, manzonianamente, se è stata (ed è) vera gloria. Rispetto alla prima fase, quella basata sulle tre Comunità originarie, come si può valutare lo sviluppo dell’Unione nata a Maastricht, e sempre più formalmente rafforzata da una serie di modifiche dei Trattati? Partiamo dal caso particolare del nostro Paese. Un altro dei protagonisti della prima Repubblica (almeno della sua fase finale) Bettino Craxi, a metà degli anni 80 nella sua veste di capo del governo si vantava nei confronti del primo ministro britannico Margareth Thatcher affermando che l’Italia aveva superato la Gran Bretagna a livello di produzione economica. Forse esagerava, forse non era tutt’oro quel che luccicava, ma il fatto stesso di accostare un Paese ancora agricolo pochi decenni prima alla patria della rivoluzione industriale la diceva lunga sullo sviluppo seguito in Italia al boom economico e che, sia pure “puntellato” in vario modo ancora perdurava.
Oggi i sudditi della regina Elisabetta II hanno lasciato l’Unione europea e da un lato ospitano la piazza finanziaria più importante d’Europa e dall’altro si avviano a diventare la maggiore potenza industriale del continente, superando la Germania, mentre il nostro Paese (purtroppo) è piombato in una crisi economica che già prima della pandemia era considerata la più grave del dopoguerra; l’emigrazione sempre più diffusa dei giovani (non solo dei “cervelli”, ma delle persone “comuni”) è lì a dimostrarlo impietosa. Né la situazione è migliorata a livello di vita civile e democratica. Stendiamo pure un velo sulla gestione dell’epidemia, ma già da molti anni il ruolo dei governanti non elettivi, dei “tecnici”, molti dei quali legittimati nel loro ruolo dal servizio prestato nelle strutture dell’Unione europea, è diventato dominante e sempre più scelte e decisioni che riguardano la vita associata dei cittadini nonché i loro diritti individuali sono adottate senza un reale dibattito nelle assemblee legislative, che sono chiamate solo a dare una approvazione a posteriori che è quasi sempre poco più che formale. Non è bello dirlo, ma la situazione nel nostro Paese è peggiorata dal 1991 non solo dal punto di vista economico, ma anche (cosa forse più grave) dal punto di vista della vita civile, sia per quanto riguarda il processo democratico che per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei cittadini.
Se ci spostiamo sul piano generale, ragionando a livello continentale, le cose non sono migliori. L’Unione europea, sull’onda del crollo dei regimi comunisti ha inglobato in sé molti nuovi stati, rispetto al 1991, ma la coesione tra i suoi membri (vecchi e nuovi) si è decisamente indebolita, ed anzi si può dire che oggi i Paesi europei sono molto più divisi e in contrasto tra loro di quanto lo erano trent’anni fa. A parte l’uscita della Gran Bretagna – che ha rappresentato una grave perdita per un’Europa che vorrebbe essere “casa comune” di tutti i popoli – l’attuale Unione sembra sempre più dividersi (come la Gallia di Cesare) in tre parti, le quali sono contrapposte e per tanti versi “ostili” tra loro, ed hanno ciascuna un diverso modo di porsi di fronte alle regole e alle istituzioni comuni, moneta unica compresa (per i Paesi che si servono di essa). Da un lato ci sono i Paesi nordici (Germania, Olanda; Paesi scandinavi e baltici, Irlanda) che stanno diventando sostanzialmente “indifferenti” rispetto all’Unione, dato che i loro rapporti economici (leggi esportazioni e importazioni) gravitano sempre più al di fuori della stessa (Stati Uniti, Cina, Asia in genere, Russia), e quando trattano le questioni comuni lo fanno quasi “dall’alto” di una posizione “sicura”, garantita dal fatto che il maggiore peso economico consente loro di condizionare in gran parte la formulazione delle regole giuridiche e la elaborazione delle decisioni politiche a livello continentale.
Privi di una tale forza contrattuale, e quindi da un lato dipendenti in maniera quasi totale dalle scelte degli organi dell’Unione e dall’altro incapaci di determinarne il contenuto, sono invece i Paesi meridionali compresa l’Italia e compresa sempre più la Francia, che si ritrovano privi in maniera crescente di una prospettiva di sviluppo economico e sociale autonomo e devono ricorrere alle “graziose” concessioni europee (approvate dai Paesi nordici) di finanziamenti, non per mantenersi alla pari di quelli, ma solo per non affondare del tutto in una crisi che rischia di portarli a livelli di vita economica e sociale di tipo non occidentale. Infine ci sono i Paesi orientali (in particolare quelli del cosiddetto gruppo di Visegrád: Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia), i quali, forti del fatto che rappresentano per gli altri Paesi europei sia dei mercati di esportazione che dei luoghi di conveniente delocalizzazione delle attività produttive, combattono una continua lotta con le istituzioni dell’Unione per adattare le decisioni comuni, limitandone la portata in relazione alle loro rispettive situazioni nazionali, ancora tutte caratterizzate peraltro da una situazione di minore sviluppo economico e sociale, eredità della passata soggezione ai regimi comunisti.
Circola la leggenda che gli uomini politici che approvarono il Trattato di Maastricht non lessero bene le sue clausole; è possibile, ma anche se fosse, sarebbe una cosa poco importante. Forse è più giusto dire che prevalse allora la visione astratta e dogmatica della realizzazione a tutti i costi dell’Europa unita, vista quasi come il risultato di un processo inevitabile della storia che avrebbe condotto a una società perfetta, guidata da una élite di esperti (di economia, di sociologia, di scienze ambientali ecc.), e che proprio in questo consiste, ad avviso chi scrive, l’origine di tutti mali e degli insuccessi provocati dalla struttura sovranazionale, i quali hanno in parte compromesso le stesse realizzazioni degli anni precedenti portate avanti sotto le tre Comunità degli anni 50: si pensi solo alla grave diminuzione degli scambi commerciali intracomunitari. Né si vedono segnali di una modifica di questa impostazione che, così come la mitica Medusa trasformava in pietra gli esseri viventi, allo stesso modo trasforma in dogma tutte le idee anche quelle più valide con cui entra in contatto, e in tal modo le svuota del loro potenziale più grande, quello di fornire la base ad un dibattito empirico, democratico, e rispettoso delle posizioni contrarie e dei diritti di chi non le condivide.
L’introduzione e la gestione della moneta unica (una delle più grandi eredità del Trattato di Maastricht) sono state portate avanti in gran parte ignorando gli avvertimenti e le perplessità degli studiosi e degli esperti pratici di economia, e si sono basate su quello che gli psicologi sociali chiamano “pensiero di gruppo” (basato sulla ricerca del consenso unitario in vista di un obiettivo anziché sulla critica dei risultati e sul confronto tra idee opposte) diffuso tra le élites politiche ed finanziarie del Vecchio Continente. La stessa cosa sta avvenendo oggi: non si pensi solo (anche se pure questo fatto è in sé molto grave) ai progetti della Commissione europea di suggerire i nomi per i figli, ma soprattutto alle modifiche coercitive all’utilizzo delle fonti di energia elaborato dalla stessa Commissione, che porterebbe (anche qui contro l’opinione di gran parte degli studiosi delle scienze della terra, nonché di molti operatori pratici, alcuni di sincere convinzioni ambientaliste) addirittura ad eliminare, per le case e le automobili, quelle basate sul petrolio. I danni rischiano di essere peggiori di quelli causati dall’euro: un ulteriore arroccamento e autoisolamento dei Paesi nordici, una decadenza sociale difficilmente reversibile in quelli meridionali e una sempre più accesa conflittualità con quelli orientali.
A ben guardare il grosso male dell’Europa continentale non è stato il nazionalismo (molti nazionalisti erano dei sinceri liberali: si pensi ad esempio ad un Cavour, l’architetto dell’unità d’Italia): il grosso male è sempre stato il dogmatismo, perché la pretesa di conoscere la verità in anticipo porta a considerare inutile il processo democratico (perché decidere a maggioranza se è già tutto chiaro?), a calpestare i diritti individuali (coloro che non comprendono la verità vanno educati), e da ultimo anche a non riconoscere i fallimenti materiali (anche i risultati più avversi non possono scalfire le verità assolute: c’è sempre modo di giustificarli, magari affermando la tesi del “male peggiore evitato”).
L’integrazione e la collaborazione tra i popoli europei sono valori irrinunciabili, ma a parere di chi scrive sarebbe necessario che essi venissero per così dire “de-dogmatizzati”, resi empirici ed affidati alle decisioni democratiche “sovrane” dei cittadini delle diverse nazioni e non a quelle di élites burocratiche condizionate nelle loro scelte dalle posizioni degli stati più “forti” (come detto quelli nordici). Forse i cittadini dei vari Paesi (compreso il nostro) potranno diventare “più europei” solo se ci saranno “meno” poteri affidati ai burocrati non eletti direttamente dal popolo e soprattutto “meno” dogmi nelle scelte delle classi dirigenti dell’Unione, anche se questo dovesse comportare la necessità (cosa che numerosi esperti, tra cui studiosi “esterni”, americani, indiani ecc. di economia e di politica sostengono) di rivedere e correggere molte delle istituzioni create sulla scia del Trattato di Maastricht, prima di tutte la moneta unica.