Le divisioni dei Tories sulla Brexit – e i problemi interni al partito laburista – stanno facendo cullare quanto di più improbabile la politica britannica possa mettere sul piatto del marketing elettorale: un partito filo-europeo a vocazione maggioritaria nella terra che si appresta a dire goodbye all’Unione europea.
L’idea è in pista da un po’ di mesi e vede tra i più accesi sostenitori alcuni grandees sia dei Conservatori che del Labour come Kenneth Clarke e Tony Blair, finanziati da quella parte dell’establishment britannico più riluttante a tagliare i ponti con Bruxelles (come il miliardario Simon Franks), sostenuti da buona parte del Foreign Office cosmopolita di Whitehall e pure dall’organo di stampa che si dichiara – non senza pomposità – rappresentante del 48 per cento dell’elettorato britannico (quello che il 23 giugno 2016 votò per il Remain): The New European.
Vero è che la Brexit ha polarizzato il sistema politico britannico, dando vita anche a Westminster a maggioranze trasversali su emendamenti e mozioni che delineano le modalità di uscita del Regno Unito dall’Ue, ma finora, nessuno aveva mai visto uno spazio politico per rompere il duopolio Tories-Labour, prima dello stallo in casa Tories sugli accordi dei Chequers per una soft Brexit e delle polemiche in casa laburista su anti-semitismo e radicalismo – vero o presunto che sia – di Jeremy Corbyn.
Detto che molti dei papabili scissionisti come Margaret Hodge, Chris Leslie, Frank Field e Chuka Umunna tra i laburisti, cercano solo una casa politica per mettersi al riparo da Corbyn – o danneggiarlo irreparabilmente – forse alcuni di loro farebbero bene a pensare alla fine che è toccata ai third-parties in un passato nemmeno troppo remoto.
Il sistema maggioritario uninominale first-past-the-post – per cui gli elogi non sono mai abbastanza – negli anni più recenti, è stato parte in causa della breve vita del Referendum Party di James Goldsmith (che curiosamente nel 1997 face campagna per avere un referendum sull’Ue), della nouvelle vague LibDems ai tempi di Nick Clegg, e anche dello UKIP di Nigel Farage, che con il 12 per cento alle elezioni del 2015 elesse un solo deputato. Le istanze antieuropee di Goldsmith e Farage sono state inglobate nell’euroscetticismo Tories di Johnson, Davis e Hannan, mentre il filone liberal – molto più debole in UK che negli Usa – fu spazzato via dagli effetti deleteri dell’alleanza di governo tra Clegg e Cameron nel 2010.
Ma per andare a cogliere il vero third-party per eccellenza della politica britannica bisogna fare un salto ancora più indietro nel tempo, all’inizio degli anni Ottanta, quando, prima della guerra nelle Falklands – e prima che il monetarismo fece effetto – il premier Margaret Thatcher era in seria difficoltà alla guida dei Tories e del Paese, e in casa laburista Michael Foot, sembrava tutto tranne che una credibile guida per il futuro dello UK.
Quattro deputati liberali e laburisti conosciuti e apprezzati per il loro talento e il loro intelletto, Shirley Williams, David Owen, Bill Rodgers e Roy Jenkins, lasciarono i loro rispettivi partiti per fondare l’SDP, acronimo che sta per Social-Democratic Party, un movimento che, facendosi beffe della storica avversione britannica per la socialdemocrazia franco-germanica, si faceva promotore di valori europeisti e di liberalismo e solidarietà sociale.
La Gang of Four – così la stampa li ribattezzò – guidata dall’ex Home Secretary Roy Jenkins, senza ombra di dubbio il politico britannico più amato a Bruxelles, cercò di incanalare il malessere dei cittadini nei confronti dei due partiti alternativi di governo, ma la vittoria – seguita da toni nazional-trionfalistici – della Thatcher nelle Falklands, fece sì che alle elezioni del 1983 l’SDP prese solo 6 seggi anche se i sondaggi di qualche mese prima gli attribuivano un potenziale di 600.
Il third-party europeista britannico sbattè sul first-past-the-post e sui risultati di governo della Iron Lady. C’è da attendersi che l’errata percezione di parte dell’establishment passato e presente faccia sì che molti dei filo-europei britannici non colgano un dato essenziale: mentre a Westminster i partiti si scannano sulla Brexit e sulle rispettive leadership, l’elettorato che ha brutalmente respinto Bruxelles, distrutto la carriera politica di Cameron e allontanato a data da destinarsi (forse mai) l’indipendenza scozzese, continua a essere preoccupato da temi quali l’immigrazione, le tasse, i trasporti, gli ospedali e i servizi sociali. Simon Franks farebbe meglio a investire i suoi soldi altrove. Se mai sarà dato alla luce United for Change – così secondo i rumours dovrebbe chiamarsi il nuovo partito – avrà vita molto breve.