Molti si chiedono come e dove collocare Donald Trump nel lungo elenco dei presidenti americani. Si rammenterà, per esempio, che dopo l’eliminazione del generale iraniano Qasem Soleimani Trump subì accuse provenienti da due fronti contrapposti.
Ovvie e scontate le critiche dei Democratici e della sinistra Usa, anche se occorre notare che ciò non avvenne quando Barack Obama ordinò l’uccisione di Osama bin Laden. Tuttavia, reazioni sfavorevoli provennero anche da esponenti conservatori, e in particolare da coloro che prendono sul serio la promessa trumpiana di rinunciare all’interventismo estero per concentrarsi sui grandi problemi interni, promessa condensata nel celebre slogan America First.
Il fatto è, a ben guardare, che nessun presidente Usa, dalle origini ai giorni nostri, può essere inquadrato in tipologie “pure”. Isolazionismo e attivismo internazionale sono spesso presenti entrambi nello stesso presidente, così come liberismo e promozione del welfare state.
Questo si deve al fatto che l’America è tuttora la prima potenza mondiale, il che significa che bisogna considerare con estrema cautela la tesi – oggi sostenuta da molti – secondo cui la Cina la starebbe scalzando da tale posizione. E, naturalmente, cautela ancora maggiore è necessaria quando si legge che, in realtà, la Repubblica Popolare avrebbe già effettuato il sorpasso.
Dovendo guidare una nazione che detiene la leadership mondiale, chi sta alla Casa Bianca – poco importa che sia repubblicano o democratico – deve per forza di cose adottare un sano pragmatismo, anche se ciò minaccia di entrare in conflitto con il programma che gli ha consentito di vincere.
Né si dimentichi, su un piano più teorico e filosofico, che il pragmatismo è l’unica dottrina filosofica che possa definirsi propriamente “americana”. Charles S. Peirce, William James e John Dewey ne sono stati i fondatori e i padri nobili a cavallo tra ‘800 e ‘900, poi seguiti da altri pensatori di rilievo ma, oggi, meno noti. E non è affatto un caso che gli Stati Uniti siano la patria di una filosofia che si fonda sul primato della pratica.
Ebbene, da questo punto di vista Donald Trump è davvero un pragmatico integrale. Piuttosto refrattario alle speculazioni teoriche, si concentra sui problemi che giudica essenziali per il suo Paese, e in questo senso per lui la politica estera è condotta sempre in funzione di quella interna. Non ha insomma (perché non la ritiene necessaria) una “visione” che veda l’America come “salvatrice” del mondo, né ritiene rilevanti temi come quello dei “diritti umani” sul quale invece basava la sua politica estera Barack Obama (con il supporto di Hillary Clinton).
Trump è senza dubbio un nazionalista americano, ed è questo tratto a caratterizzarlo in modo precipuo. Nessuna meraviglia, quindi, che egli venga talora accostato ad Andrew Jackson, settimo presidente Usa, in carica dal 1829 al 1837. Anche per Jackson compito prioritario era garantire il benessere del popolo americano, ragion per cui diffidava del coinvolgimento Usa nelle dispute internazionali, suscettibile, a suo avviso, di togliere risorse al conseguimento dell’obiettivo di cui sopra.
Sempre percorrendo tale strada, Jackson usava la forza militare a fini difensivi e di deterrenza, ma era pure pronto a dispiegarla al massimo livello quando riteneva che l’interesse nazionale americano fosse in pericolo. Nessun coinvolgimento bellico di lungo periodo, tuttavia, e volontà di ritornare “a casa” quando il pericolo per l’interesse nazionale fosse cessato. Dal suo punto di vista l’America non aveva affatto una missione “civilizzatrice”, e doveva piuttosto badare a coltivare i propri interessi.
Vi sono quindi parecchi elementi che lo accostano a Trump. Anche Jackson non coltivava ambizioni intellettuali di grande respiro. Proveniva dalla frontiera, si definiva “uomo del popolo” e preferiva gli agricoltori agli intellettuali, tanto del Nord quanto del Sud. Come non vedere un parallelo con il tycoon di New York che ora risiede alla Casa Bianca? Pragmatismo, opportunismo e anti-intellettualismo accomunano i due presidenti così distanti nel tempo.
Certo Trump deve gestire una realtà molto più complessa. Nell’epoca di Jackson gli Stati Uniti erano già una potenza, ma più regionale che globale. Oggi gli impegni assunti all’estero non possono essere evitati con facilità. Tuttavia, più che sul piano militare, l’attuale presidente si impegna su quello economico e commerciale, come dimostra la guerra dei dazi scatenata contro la Cina. E questo è significativo. Indica infatti la sua volontà di recuperare il terreno perduto negli ultimi decenni, modificando una globalizzazione che in molti casi ha penalizzato gli interessi americani.