Non è la prima volta che ne parliamo qui su Atlantico e non sarà, purtroppo, l’ultima. Abbiamo un membro togato del Csm che tra apparizioni in tv e interviste alla stampa sta picconando ciò che resta del nostro già sfilacciato stato di diritto, sdoganando e promuovendo dalla sua postazione, dall’interno dell’organo di autogoverno della magistratura, dal cuore dunque delle nostre istituzioni, una visione della giustizia in netto contrasto con la civiltà giuridica liberale e con i principi costituzionali, che la sua carica gli imporrebbe di tutelare.
Ospite quasi fisso della trasmissione DiMartedì, su La7, nella puntata della scorsa settimana Piercamillo Davigo ha definito la separazione delle carriere dei magistrati una “stravaganza”, perché si basa sull’idea “profondamente sbagliata che le parti nel processo siano uguali”, mentre a suo avviso “non possono essere uguali”. “Se il pubblico ministero va in udienza sapendo che l’imputato è innocente e ne chiede la condanna, commette il delitto di calunnia”. Al contrario, “se il difensore colto da crisi di coscienza dice al giudice ‘mica penserà di assolverlo, è colpevole’, commette infedele patrocinio e rivelazione del segreto professionale”. Dunque, ha sostenuto Davigo, che parità può esserci nel processo tra accusa e difesa, tra “una parte che viene punita se mente e l’altra che viene punita se dice la verità”…
Con la sua provocazione Davigo fraintende volutamente il concetto di parità tra le parti: ovvio che non essendo uguali le funzioni di accusa e difesa nel processo, diverse siano le sanzioni nei casi di comportamenti dolosi (che tra l’altro molto raramente vengono contestati ai pm). La parità è davanti al giudice e a tutela dell’imputato, presunto innocente fino a sentenza definitiva, ma non per esempio nell’onere della prova, che spetta (o dovrebbe spettare) all’accusa.
Il sottotesto, la pericolosa idea che si insinua evocando il paradosso di una parte costretta per legge a dire il vero, e l’altra a sostenere il falso, è che l’accusa sia inevitabilmente depositaria della verità, mentre la difesa sia naturalmente portata a mentire, essendo l’imputato un presunto colpevole. Tutto il contrario del principio del giusto processo. Tesi che Davigo ha ribadito in un’intervista di sabato scorso al quotidiano La Stampa: “L’unica parte buona del processo è il pubblico ministero, per definizione legislativa. Le parti private fanno i propri interessi”.
E ancora dalla stessa intervista, lascia attoniti la sua risposta sul perché di tanti risarcimenti per ingiusta detenzione: “In buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca. Di norma le prove raccolte nelle indagini non valgono in dibattimento. Ciò allontana il giudice dalla verità. Per non dire dell’appello, dove buona parte delle assoluzioni dipende dalla difficoltà di conoscere a fondo il processo”. Qui abbiamo, in rapida successione: presunzione di colpevolezza persino degli imputati assolti o scagionati; attacco al principio secondo cui la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti, mentre nelle indagini preliminari il pm raccoglie “elementi di prova”; e delegittimazione del secondo grado di giudizio (i giudici di appello sarebbero indotti ad assolvere in pratica per ignoranza, non si capisce se imputabile a loro o a cosa).
Davigo fa parte della commissione del Csm che decide su nomine e incarichi dei magistrati. “La più ambita”, osserva il giornalista. “La più sgradevole”, si schernisce. E la sua stessa spiegazione assesta un colpo micidiale alla reputazione del Consiglio superiore della magistratura. “Chi vince non ti è grato perché convinto di meritarlo, gli altri ti ritengono responsabile della loro mancata nomina”. Quella che Davigo fa emergere non è un’immagine esattamente edificante dell’organo di cui è membro. Il senso implicito di quella frase, infatti, è che viene nominato chi non lo meriterebbe e, dunque, per questo chi lo nomina si aspetta almeno della gratitudine.
Se ormai, a un quarto di secolo da Mani Pulite, politica e informazione sembrano assuefatti alla cultura giustizialista, quando non suoi complici se occorre colpire l’avversario di turno, c’è ancora qualcuno a cui tutto questo fa venire i brividi. È giunto forse il momento che chi presiede il Csm, il presidente della Repubblica, ricordi ai suoi componenti l’abc della nostra civiltà giuridica. Ne va della credibilità e onorabilità della stessa magistratura e dell’istituzione che la governa.