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Una gestione dell’emergenza peggiore di quella italiana c’è: l’esperimento social-bolivariano in Spagna

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Pensavate che l’Italia fosse il Paese che ha gestito la crisi del coronavirus nel modo peggiore? Ebbene, vi sbagliavate. Difatti, guardando al di là del Tirreno, troverete un governo la cui gestione della crisi economica e sanitaria fa impallidire, per inefficienza, la già non mirabolante gestione italiana.

Per farci un’idea degli spropositi di cui è stata costellata la gestione dell’emergenza Covid-19 in Spagna, bastano due pillole. La prima. In piena emergenza, una settimana dopo che l’Oms dichiarasse lo stato di pandemia mondiale, l’otto marzo il governo social-comunista di Pedro Sánchez e Pablo Iglesias decide di autorizzare le manifestazioni femministe su tutto il territorio nazionale, esponendo pertanto l’intera popolazione spagnola a un elevato rischio di contagio. Pochi giorni prima della manifestazione, un alto esponente di Podemos aveva sostenuto che autorizzare la manifestazione era un atto dovuto, visto che le morti per violenza di genere erano ben più alte di quelle dovute al coronavirus (!). Naturalmente, il governo non avrebbe potuto politicamente bloccare le manifestazioni femministe, vere e proprie sentinelle del dogma, truppe d’assalto ideologico usate dalla sinistra per “fascistizzare” ogni pensiero non omologato. Ma non finisce qui.

Difatti, con sprezzo del pericolo (e, soprattutto, del ridicolo) il 12 marzo il governo annuncia l’entrata in vigore dello stato di allarme. Ma la data di entrata in vigore cui l’annuncio fa riferimento non sarà quello stesso giorno, bensì il 14 marzo, ossia ben due giorni dopo. Ciò permetterà all’intera popolazione spagnola di recarsi in massa nelle proprie seconde case, con ovvie conseguenze in termini di diffusione potenziale del virus. E dire che in Italia si era già assistito a una simile, ma sinceramente meno plateale, scivolata da parte del premier Conte.

Purtroppo il malgoverno in Spagna non inizia con il coronavirus. Difatti il Paese era arrivato alle soglie della crisi sanitaria con un’economia che dava crescenti e preoccupanti segnali di rallentamento. A causa di due aumenti del salario minimo decretati da un Sánchez guidato dalla più assoluta demagogia, il mercato del lavoro, che negli anni post-crisi aveva creato tra i 200 e i 400 mila posti di lavoro ogni anno, si è sostanzialmente fermato, pregiudicando soprattutto i lavoratori a più basso reddito. Gli investimenti nell’ultimo trimestre del 2019 avevano già iniziato a contrarsi, a causa delle ben poco rosee prospettive di aumenti fiscali e interventi statali nell’economia. A ciò si aggiungeva un quadro di finanza pubblica vieppiù complicato, con un deficit in aumento per la prima volta in 6 anni. Come se non bastasse, il governo social-bolivariano aveva deciso di introdurre due tasse cavalli di battaglia della sinistra tassa-e-spendi globale: la tassa Tobin e la tassa sui giganti del web. Insomma, un film dell’orrore per qualsiasi potenziale investitore.

Arriviamo dunque all’impatto della crisi. Il governo, in mezzo a forti ristrettezze di bilancio, non ha potuto far altro che approvare un pacchetto fiscale di entità ben più modesta rispetto alle misure messe in campo da Paesi che godono di ben altra solidità economica e finanziaria, quali la Germania e il Regno Unito. La modestia delle risorse, tuttavia, è stata inversamente proporzionale al volume della propaganda governativa nell’annunciare le stesse. Inoltre, durante lo zenit dell’emergenza, gli alleati chavisti di Podemos decidevano di non farsi scappare un’occasione tanto ghiotta per i loro piani collettivisti qual è una crisi che ha rinchiuso in casa l’intera popolazione. Pertanto nel primo Consiglio dei ministri di crisi, durato sette ore proprio a causa dello scontro frontale tra i ministri socialisti più ragionevoli e la pattuglia radicale di Podemos, Pablo Iglesias, a titolo di vicepresidente del governo, ha proposto la nazionalizzazione su larga scala delle industrie “strategiche”, tra le quali anche i mezzi di comunicazione.

In un tweet che segue un altro Consiglio dei ministri, Iglesias lascia ben chiaro qual è il suo punto di vista circa la strategia da seguire per uscire dalla crisi: “Tutta la ricchezza degli spagnoli è subordinata all’interesse generale”. E se il messaggio non fosse abbastanza chiaro, la sua compagna e madre dei suoi figli, nonché ministro del governo (!), propone un’uscita dalla crisi economica che ricalchi quanto fatto dai Kirchner in Argentina, implicitamente suggerendo nazionalizzazioni a tappeto e controllo statale di ampi settori dell’economia. Senza ovviamente menzionare il collasso economico, valutario e sociale che una tale uscita comportò nel Paese del Perito Moreno. Fortunatamente, le proposte più minacciose, radicali e pericolose di Podemos non sono state finora approvate. Non certo per via delle solide convinzioni del presidente del Governo (non si hanno notizie al riguardo), bensì grazie a un’opposizione interna al Consiglio dei ministri, dove siedono anche socialisti dell’area più moderata.

Dulcis in fundo, le proposte di lotta contro le fake news, un classico dell’orrore in questo frangente storico. Servendosi di un centro di opinione pubblico subordinato di fatto al governo, agli spagnoli viene proposta la seguente domanda: “Credete che in questi momenti bisognerebbe proibire la diffusione di fake news e di informazioni ingannevoli, restringendo l’informazione alle sole fonti ufficiali? Oppure credete che si debba mantenere una libertà totale nella diffusione delle informazioni?”.  Si noti la capziosità della domanda, in cui solo le fonti pubbliche possono smentire (e mai produrre, ça va sans dire!) le bufale, mentre invece una libertà totale viene associata di fatto all’arbitrio incontrollato. Ovviamente non passa per la testa di lor signori che la libertà di stampa non si fonda sul fatto che la stampa dica sempre la verità, bensì sulla constatazione di quanto sia pericoloso riservare la diffusione di informazioni alle sole fonti ufficiali. Su questo, in fin dei conti, si basa la libertà politica.

Da ultimo, e come non poteva non essere diversamente, Podemos sta insistendo per usare il grimaldello della crisi per introdurre un reddito minimo vitale permanente. Un reddito che dovrebbe andare a coloro che non lavorano e che si andrebbe a sovrapporre a un labirinto intricato di sussidi, sia statali che regionali, che ha dato vita a un vero e proprio turismo assistenziale.

Per concludere, la crisi sta offrendo l’occasione all’unico partito comunista al governo nell’Unione europea di avanzare il suo programma di sovvertimento della democrazia liberale basata sullo stato di diritto e sul libero mercato. Il tentativo di rendere i cittadini totalmente dipendenti dal potere tramite una matassa di sussidi assistenzialistici; la voglia indissimulata di controllare i mezzi di comunicazione di massa; e da ultimo il tentativo di controllare le industrie strategiche del Paese, e dunque la sua struttura produttiva, dimostrano l’estrema pericolosità di un partito che si trova più a suo agio con i regimi populisti sudamericani di estrema sinistra che in un consesso europeo che, pur con tutti i suoi limiti, considera Podemos una pericolosa bizzarria.

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