Sorprende che a tutt’oggi non si sia dato rilievo ad un precedente accostabile all’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, cioè la guerra tra Finlandia e Unione sovietica, combattuta nel breve arco di tre mesi, dal 30 novembre 1939 al 12 marzo 1940, fra l’altro con un potenziale accostamento dei due dittatori insediati a Mosca, oggi Putin, ieri Stalin. A colpire è anzitutto la sproporzione delle forze in campo, essendo l’Ucraina, come la Finlandia, molto meno forte della potenza confinante, che, come ora, allora peccò di una grave sottovalutazione della resistenza che le poteva essere opposta. A quanto scrive Kruscev nelle sue memorie, “tutto ciò che avevamo da fare era alzare appena la nostra voce e i finlandesi avrebbero ubbidito. Se ciò non avesse funzionato, ci sarebbe bastato sparare un colpo e i finlandesi avrebbero alzato le mani e si sarebbero arresi. O almeno così noi credevamo… Nessuno di noi pensava che ci sarebbe stata la guerra. Eravamo sicuri che i finlandesi avrebbero accettato le nostre richieste senza costringerci alla guerra”.
Una resistenza eroica, che però alla fine fu piegata, costringendo la Finlandia, con la pace di Mosca, a cedere una fetta di territorio notevolmente più ampia di quella pretesa dall’Unione Sovietica prima dell’invasione, cosa questa che sembrerebbe confortare chi vorrebbe la fine della politica di sostegno praticata dall’Occidente nei confronti dell’Ucraina con l’invio di armi difensive e/o con il varo delle sanzioni. Va detto che neppure allora mancò quel sostegno internazionale su cui la Finlandia aveva fatto affidamento: armi arrivarono dalla Francia e dal Regno Unito, comprese quelle offensive, circa 300 aeroplani e 500 pezzi di artiglieria, nonché volontari, principalmente ma non solo dalla Norvegia e dalla Svezia, in un numero superiore ai 20 mila; mentre l’intervento diretto di circa 60 mila uomini, francesi, britannici e polacchi, attraverso uno sbarco in Norvegia, avvenne quando già i tedeschi avevano dato inizio all’occupazione del Paese scandinavo.
Al tempo dell’invasione della Finlandia era già in corso la guerra mondiale. In base al patto Molotov-Ribbentrop, i tedeschi il primo settembre 1939 attaccarono la Polonia, con l’immediata reazione di Francia e Regno Unito, che dichiararono guerra alla Germania il 3 settembre. Quindi la guerra russo-finlandese si svolse quando Francia e Germania si guardavano in armi dalle rispettive linee fortificate, la Maginot e la Sigfrido; mentre l’Unione Sovietica, apparentemente sicura dopo aver attaccato a sua volta la Polonia il 17 settembre, restava inquieta, tanto da volersi guardare le spalle, spostando in avanti la linea di confine con la Finlandia, che si trovava a ridosso di Leningrado, a meno di una quarantina di chilometri. Nel prosieguo di quel passo appena citato, Krusciov aggiunge: “Ci si può chiedere se avevamo qualche diritto legale o morale per le nostre azioni contro la Finlandia. Di certo non avevamo alcun diritto legale. Per quanto riguarda la moralità, il nostro desiderio di proteggere noi stessi era una sufficiente giustificazione ai nostri occhi”.
Un riconoscimento a posteriori, da pensionato ormai ben lontano dal potere assoluto goduto a suo tempo; ma lo stesso cinismo, liberato da tutto l’attuale ciarpame propagandistico ad uso interno, cercando di vendere l’”operazione speciale” come una riedizione della guerra patriottica contro una risorgente minaccia nazista, appare condiviso dallo stesso Putin. Certo, ben consapevole di violare il diritto internazionale, ma convinto di dover contenere un possibile allargamento territoriale della Nato a ridosso dei suoi confini, ecco realizzare un intervento preventivo finalizzato alla creazione di due stati cuscinetto, Bielorussia e Ucraina, uno fantoccio, l’altro ridimensionato territorialmente e indebolito militarmente, per poi essere neutralizzato.
Il classico confronto fra diritto internazionale e ragion di stato: quello che il primo esclude, la seconda permette, l’invasione di un Paese riconosciuto universalmente come sovrano. A ben guardare, se a preoccupare Putin è proprio l’espansionismo Nato, che ha seguito passo a passo il collasso del blocco sovietico dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, questo è percepito sotto un duplice profilo, che combina aspettative diverse, ma concorrenti: difensive, quali date da una minore esposizione ad una eventuale minaccia occidentale; offensive, quali costituite da una visione imperiale, coltivata, senza soluzione di continuità, dalla Russia zarista e dalla Russia comunista. Ma non manca allo stesso Putin una giustificazione non strategica, ma etnica, anche se assunta generalmente a giustificazione di guerre di conquista con la scusa di voler annettere enclave esposte ad una pesante discriminazione: se n’è servito Hitler per l’annessione dei Sudeti, se ne serve ora l’abitante del Cremlino, per far riconoscere le neo-proclamate repubbliche del Donbass.
Si può dire che nel corso della guerra l’enfasi si è trasferita dalla giustificazione strategica a quella etnica, certo in ragione di una resistenza non prevista, tale da rendere estremamente problematica la meta finale della “operazione speciale”, cioè la presa di Kiev, la defenestrazione di Zelens’kyi, l’imposizione di un governo fantoccio. Ora Putin parla solo di liberare il Donbass, declassando a mero diversivo tattico l’attacco a Kiev, solo per tenere occupate al nord parte consistente delle forze ucraine; ma non lascia capire che cosa intenda realmente fare, dato che si è fatto carico di costituire una continuità territoriale fra Donbass e Crimea, con esclusione dell’Ucraina dal Mar d’Azov, non senza far sospettare l’esistenza di una riserva mentale circa la presa d’Odessa, estendendo l’esclusione anche dal Mar Nero.
Ritornando al confronto col precedente della guerra russo-finlandese, rileva l’estrema diversità del territorio coinvolto, qui costituito da città grandi, medie, piccole, un tessuto urbano assai fitto, con una forte ricaduta sulla popolazione ucraina in termini di distruzioni e perdite civili, accompagnate da una massiccia emigrazione di massa; ma anche con una grande difficoltà per la forza militare russa a condurre una battaglia strada per strada, casa per casa. Ma a pesare è soprattutto la mutata scena internazionale, con un’Europa non al centro di ben due guerre mondiali nell’arco di un ventennio, ma riunita in gran parte nella Ue, che conta 27 Paesi, non che alleata con gli Usa nella Nato. Sì che l’impatto della mossa di Putin, per non essere riuscito a mettere tutti di fronte al fatto compiuto con una guerra lampo, è stato controproducente: ha ricompattato l’Ue, con la messa in atto di pesanti sanzioni; ha rivitalizzato la Nato, con la convinta se pur tardiva condivisione da parte di Paesi membri della clausola implicante la destinazione del 2 per cento del Pil annuale alle spese militari.
Allora la Finlandia appariva una vicenda secondaria, confinata nell’estremo nord, in un auto-isolamento che avrebbe dovuto tenerla indenne dal ciclone che aveva già investito il cuore dell’Europa, mentre era in atto una tragica riedizione della sfida bellica tra Francia e Germania; ora l’Ucraina risulta una vicenda centrale, che evoca una debolezza strutturale della Ue, la mancanza di una forza militare unitaria spendibile sulla scena internazionale, come dimostra tutta la sua irrilevanza nelle partite che sono state giocate da parte della Russia in Cecenia, Georgia, Ucraina, ieri con la Crimea, oggi con il Donbass, non che da parte della stessa Russia e della Turchia in Libia. Questa è stata l’amara verità con cui alla fine ha dovuto fare i conti, che l’ombrello nucleare della Nato, cioè principalmente degli Usa, non è affatto un deterrente sufficiente, perché non utilizzabile senza per questo solo scatenare una terza guerra mondiale del tutto suicida. Se la Russia attaccasse la parte più debole dell’alleanza, le repubbliche baltiche, l’unica scelta praticabile sarebbe contrastarla sul terreno, con una risposta immediata che naturalmente richiederebbe la presenza effettiva di forze armate terrestri, aeree, navali subito disponibili.
Questa è la lezione che si può trarre dall’invasione dell’Ucraina, come d’altronde testimonia una prima concentrazione di forze alleate ai confini con la Russia, ma qual è la prospettiva dell’Ucraina stessa? A stare a quanto di recente ha sostenuto Putin sembrerebbe risolversi tutto nel riconoscimento della annessione della Crimea e delle due repubbliche del Donbass, ma certo non deve essere escluso l’obiettivo principale dell’invasione, la neutralizzazione dell’Ucraina, parola declinabile in più di una variabile, dal no alla Nato ad un disarmo totale o parziale. Neppure è credibile che l’esercito russo si ritiri docilmente dai territori conquistati a prezzo di pesanti perdite in termini di uomini e di mezzi, ne andrebbe del consenso interno, gonfiato oltremodo con il rappresentargli ossessivamente un nemico deciso a cancellare la Russia dalla carta geografica, l’Ucraina come mera pista di lancio di una offensiva finale. Potrebbe aversi una cessazione del fuoco, con una interminabile negoziazione, tale da giustificare la permanenza dell’esercito russo nelle aree occupate specie al sud.
Non è possibile dire quando l’Ucraina potrà cominciare a ricostruire le sue città, a rimarginare le sue ferite in termini di perdite umane, a far ritornare i suoi cittadini, è certo che sarà una ulteriore scommessa di solidarietà per l’Europa, cui essa ha mostrato di voler appartenere, non solo per geografia, ma per identità di tradizione, cultura, idealità.