A volte ritornano. Da quando ha lasciato la segreteria del Partito democratico, Matteo Renzi da showman protagonista del dibattito politico italiano sembra essersi apparentemente ritirato a semplice senatore d’opposizione. Così non è, né poteva essere, avendo imparato a conoscerlo nei tre anni del suo governo.
L’ex presidente del Consiglio ci sta abituando ad una sorta di silenzio tattico, talvolta interrotto da improvvise incursioni mordi e fuggi contro il bersaglio di turno, ora i sempreverdi Salvini o Di Maio, ora Monti, ora il suo stesso partito, per poi tornare nelle retrovie a meditare la prossima frecciata. Insomma: ne ha sempre per tutti.
Il 5 luglio scorso è tornato alla cronaca per via di una lettera inviata a Repubblica con la quale intende puntualizzare tutta una serie di errori, a suo dire, commessi dal Pd, a partire dal momento della sua dipartita, cioè: non aver insistito sufficientemente sullo ius soli, aver sopravvalutato l’emergenza immigrazione (riservando la solita stoccata anche all’amato e odiato Minniti), aver speso troppo poco “per aiutarli a casa loro”.
Non ritengo ora rilevante addentrarmi nel merito dei fatti contestati dall’ex segretario. Di fatto il numero di cittadinanze attualmente concesse a leggi invariate ai figli degli stranieri da parte dello stato italiano è fra i più alti in Europa, così come la non eccellente situazione finanziaria italiana non permetterebbe di ragionare di piani Marshall per l’Africa: può rappresentare una soluzione valida ai problemi di quei paesi, oppure sarà la solita questua di denari, questa volta pubblici?
Potevamo sperare che questo periodo di riflessione ci restituisse un Matteo nuovo, consapevole degli errori commessi, magari redento o almeno pacificato con se stesso.
Questa lettera dissolve ogni speranza, di fatto è una occasione persa, quella di meditare sui propri sbagli, che contribuirà a tenerlo ancora ai margini della politica: è netto il rifiuto di comprendere sia i danni provocati dal tipo di gestione del fenomeno migratorio che continua a difendere, sia la totale inopportunità di questo ius soli o muerte.
Si ripresenta nuovamente, stoicamente radicato, come suo solito, sulle sue posizioni, contro tutto e contro tutti, sperando di suscitare una forma di radicalismo nei suoi elettori. Incorreggibile, incorruttibile, ma il risultato della sua operazione è sempre lo stesso: dimostrare, sempre e in ogni luogo, ancora una volta, di non aver capito le ragioni che lo hanno portato alla rottamazione.
Scrive:
“Qualcuno si scaglia contro di noi: chiedete scusa! E di che? Non mi vergogno di ciò che ha fatto il mio governo (…). Allarmismo sugli sbarchi, mancanza di coraggio sui valori. Il successo di Salvini inizia lì”.
170 mila sbarchi nel 2014, 155 mila nel 2015, 181 mila nel 2016 e 120 mila poi nel 2017, non dovevano sembrare abbastanza per sospettare che la situazione fosse sfuggita di mano? Con il criminalizzato Minniti e poi con il cattivo Salvini, si chiude il 2018 con 23 mila sbarchi. Risultato? Meno assistenzialismo, meno traffici, meno morti, ma soprattutto, stando ai sondaggi, emerge la repellenza dell’elettorato verso le scelte terzomondiste di accoglienza incondizionata, #openborders, #accogliamolitutti e #siamotuttimigranti.
Scelte vincenti, criminalizzate per il gusto dell’opposizione incondizionata: la maggioranza ringrazia per l’ennesimo assist.