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Un’altra bomba sul Russiagate: dubbi anche sull’interferenza russa per aiutare Trump, nel mirino Brennan

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Vacillano le ultime “certezze”: l’ex direttore della Cia Brennan avrebbe falsato in chiave anti-Trump la valutazione finale dell’intelligence riguardo l’interferenza della Russia nelle presidenziali e la Crowdstrike ammette di non essere sicura che i russi abbiano rubato le email del Comitato nazionale democratico

Due “verità” date per scontate per anni, presupposto del Russiagate, senza le quali cioè il caso non avrebbe avuto alcun senso fin dall’inizio, stanno vacillando in seguito alle rivelazioni che giungono da Washington nelle ultime ore: 1) L’ex capo della Cia dell’amministrazione Obama, John Brennan, avrebbe nascosto informazioni di intelligence in contraddizione con le conclusioni del gennaio 2017 secondo cui la Russia aveva interferito nel processo elettorale per aiutare Trump e danneggiare Hillary Clinton; 2) La società privata incaricata dal Comitato nazionale democratico di esaminare i propri server dopo l’hackeraggio della primavera 2016, non avrebbe in realtà una prova certa che i russi abbiano rubato le email che poi Wikileaks avrebbe diffuso di lì a poco, nel pieno della campagna.

Insomma, si tratta delle due “notizie di reato” per le quali la Campagna Trump è stata sospettata di collusione con la Russia. Da quanto sta emergendo nei documenti che via via vengono declassificati e messi a disposizione dell’indagine del procuratore Durham, anche questi come gli altri pilastri del Russiagate che abbiamo visto negli anni crollare, potrebbero essere stati “fabbricati”.

Ma procediamo con ordine.

Il 6 gennaio 2017 – il giorno dopo il meeting alla Casa Bianca in cui l’allora presidente Obama parlò con i suoi dell’indagine su Flynn – fu pubblicato il rapporto Intelligence Community Assessment (ICA), dopo solo due settimane dalla richiesta di Obama alla comunità di intelligence di avere una valutazione finale sull’influenza russa nelle presidenziali del 2016. Un rapporto oggi sotto la lente del procuratore John Durham, che sta indagando per conto dell’Attorney General Barr sulle origini del Russiagate.

In quel rapporto, si concludeva con “un alto livello di certezza” che il presidente russo Putin aveva “ordinato una campagna di influenza nel 2016” per “minare la fiducia dell’opinione pubblica nel processo democratico Usa e denigrare il segretario Clinton”, mostrando una “chiara preferenza per il presidente-eletto Trump”. Putin e il governo russo, conclude il rapporto, “aspiravano ad aumentare le chance di vittoria di Trump”.

Da qui l’esigenza di capire se gli sforzi russi erano stati in qualche modo incoraggiati da, o concordati e organizzati con la Campagna Trump.

Per anni è sopravvissuta la mitologia secondo cui addirittura “17 agenzie di intelligence Usa” avessero concordato che la Russia aveva interferito nelle elezioni per aiutare Trump, ma come ammetteva il New York Times già nel febbraio 2017, le agenzie che erano effettivamente convinte, con diversi gradi di certezza, delle conclusioni dell’ICA, erano tre: l’ufficio del direttore dell’Intelligence Nazionale, la CIA, l’FBI, e l’NSA.

Cosa è emerso di recente? Secondo quanto riportato da Fox News martedì, il DNI pro tempore Grenell avrebbe declassificato informazioni che mettono in discussione le conclusioni dell’ICA. Queste nuove informazioni suggeriscono che il direttore della CIA sotto la presidenza Obama, John Brennan, “fosse in possesso anche di informazioni secondo cui, in realtà, la Russia voleva che vincesse Hillary Clinton, perché era qualcosa di noto, era stata segretario di Stato, e il team di Vladimir Putin pensava fosse più malleabile, mentre il candidato Trump era imprevedibile”. Una considerazione così ovvia da non richiedere chissà quale sofisticata analisi di intelligence…

Una notizia che confermerebbe quanto rivelato il 22 aprile scorso dall’ex capo dello staff del Consiglio di sicurezza nazionale Fred Fleitz, il quale ha riferito che parlando con lo staff della Commissione Intelligence della Camera ha appreso che dopo un’ampia revisione delle informazioni di intelligence e interrogatori di funzionari, era emerso che Brennan aveva nascosto informazioni di “alta qualità” che suggerivano che in realtà Putin preferiva la vittoria della più prevedibile e malleabile Clinton, mentre aveva incluso informazioni di “scarsa qualità, al di sotto degli standard della comunità di intelligence”, per supportare la sua tesi che la Russia voleva vincesse Trump.

Un separato rapporto, ora declassificato, tenuto nascosto nell’ufficio dell’ispettore generale della CIA, getta una luce inquietante sul ruolo dell’allora direttore Brennan nel preparare l’ICA che avrebbe rappresentato il “movente” della supposta collusione della Campagna Trump con la Russia. Brennan avrebbe deciso a sfavore degli analisti dell’agenzia che volevano includere nella valutazione finale “solide informazioni di intelligence” che mostravano come il presidente russo preferisse la vittoria di Hillary e volevano, invece, togliere le “deboli informazioni” che indicavano in Trump il favorito del Cremlino.

“Quindi Brennan ha effettivamente falsato questa analisi, scegliendo l’intelligence anti-Trump ed escludendo quella anti-Clinton”, ha commentato Fleitz a The Epoch Times.

Nella sua audizione alla Commissione Intelligence della Camera del maggio 2017, lo stesso Brennan affermò di aver costituto a fine luglio 2016 (negli stessi giorni in cui l’FBI apriva l’indagine di controintelligence sulla Campagna Trump) un gruppo di funzionari di CIA, NSA e FBI allo scopo di condividere le informazioni tra tutti coloro delle diverse agenzie di intelligence che stavano indagando sulle interferenze russe e la Campagna Trump. In una intervista del luglio 2017, definì il gruppo “fusion cell”, cellula di fusione: “Yeah, absolutely I set up a fusion cell and brought all these people together and our entire focus was the Trump Campaign”. Oggi i documenti prodotti dall’attività e nei numerosi incontri della “fusion cell” di Brennan sono al vaglio del procuratore Durham.

Il presidente Trump, attirandosi non poche critiche anche da parte del suo stesso partito, è stato riluttante ad accettare l’affermazione che la Russia ha interferito nelle elezioni, ma non ha mai riconosciuto che lo abbia aiutato a vincere. E forse non aveva tutti i torti.

Su un’altra questione il presidente Trump ha da sempre espresso forti dubbi, nonostante nella comunità di intelligence vi fosse invece un ampio consenso, e cioè sul fatto che fossero stati i russi ad hackerare i server del Comitato nazionale democratico per appropriarsi di migliaia di email e passarle a Wikileaks, che le avrebbe diffuse nel pieno della campagna per danneggiare la Clinton. Nell’estate 2016, in effetti, dalle email di John Podesta emerse come i vertici del partito avessero favorito Hillary Clinton ai danni di Bernie Sanders nella corsa alla candidatura democratica.

Come forse ricorderete, però, il fatto che l’FBI non sia mai entrata in possesso dei server del DNC per esaminarli, e abbia fatto affidamento sulla perizia di una società privata assunta dai Democratici, la Crowdstrike, e che uno di questi server sia in Ucraina, custodito da uno dei fondatori della società, Dmitri Alperovitch, ha continuato a destare sospetti. In realtà, entrare in possesso fisicamente dei server non è necessario, o almeno non è la procedura usuale, per le analisi forensi. Basta una copia del contenuto. Che però, in questo caso, è stata prelevata non direttamente dall’FBI, come la delicatezza estrema delle circostanze avrebbe forse consigliato, ma da una società privata incaricata da chi ha denunciato l’hackeraggio – in questo caso un soggetto potenzialmente mosso da finalità politiche (per esempio, quella di ricondurre in capo al proprio avversario la responsabilità ultima o il cui prodest dell’accaduto).

Ebbene, in una delle audizioni a porte chiuse svolte dalla Commissione Intelligence della Camera, le cui trascrizioni sono state declassificate nei giorni scorsi (di molte abbiamo già parlato qui), il presidente di Crowdstrike (ed ex agente FBI) Shawn Henry ha ammesso di non avere “prove concrete” che la Russia abbia rubato le email dai server del DNC. “Non abbiamo prove concrete che i dati furono esfiltrati dal DNC, ma abbiamo degli indicatori che lo furono”. Così Henry rispondeva alla domanda del presidente, il Democratico Adam Schiff, che gli chiedeva di ricordare “quando” fosse avvenuto.

“In alcuni casi – ha spiegato alla Commissione – siamo in grado di vedere i dati esfiltrati, e possiamo dirlo con certezza. In questo caso sembra che erano pronti per essere esfiltrati, solo che non abbiamo la prova che partirono davvero”. “C’è una prova circostanziale”, ma “nessuna prova che furono effettivamente esfiltrati”.

Cercando di precisare, incalzato dalle domande dei deputati Dem, Henry aggiunge che stava “solo cercando di essere accurato sui fatti, che non abbiamo visto i dati partire, ma crediamo siano partiti, sulla base di ciò che abbiamo visto”. Sulla base dell’analisi svolta, “70 gigabytes di dati” furono esfiltrati, ma anche alla richiesta specifica del deputato repubblicano Mike Conaway, se potesse “inequivocabilmente dire se furono o no esfiltrati dal DNC, sulla base di ciò che ha visto”, Henry ha risposto di no, “non posso dirlo”.

Era il 5 dicembre 2017 e questa audizione è rimasta nascosta per oltre due anni.

Il giornalista Aaron Maté aveva già in precedenza notato, su RealClearInvestigations, che nel suo rapporto il procuratore speciale Mueller usa un linguaggio ambiguo: l’attribuzione alla Russia dell’hackeraggio dei server del DNC sembra incerta e, almeno in parte, fondata su deduzioni, non su prove solide. Nel ricostruire il presunto furto delle email, Mueller scrive che “gli ufficiali del GRU sembravano aver rubato migliaia di email e allegati”. Forse non era sicuro, perché non lo era nemmeno la Crowdstrike?

D’altra parte, ricorda Maté, Julian Assange ha sempre negato di aver ricevuto le email dai russi, spiegando che la possibilità che diversi attori, anche statali, siano riusciti a penetrare nei server del DNC non significa che essi abbiano anche rubato le email poi diffuse da Wikileaks tra giugno e luglio 2016.

Insomma, la Crowdstrike dice di credere che i russi abbiano hackerato i server del DNC, ma ammette di non avere una prova diretta che abbiano davvero esfiltrato le email, quindi potrebbe dire il vero Assange quando sostiene che la Russia può aver hackerato il DNC, ma le email diffuse non le ha ottenute dai russi.

Bisogna ricordare che l’FBI ha aperto l’indagine sulla presunta collusione Trump-Russia sulla base del predicato secondo cui, come si legge nel rapporto Mueller, George Papadopoulos avrebbe “suggerito al team Trump di aver ricevuto una sorta di suggerimento dalla Russia”, tramite il professore maltese Joseph Mifsud, che avrebbe potuto rilasciare materiale “dirt” su Hillary Clinton nella forma di migliaia delle sue email. Ma come ammesso dallo stesso vicedirettore dell’FBI McCabe, le parole di Papadopoulos “non indicavano che fosse lui ad avere contatti, ad interagire con i russi”. E in ogni caso, le email “in mani russe” di cui avrebbe parlato Mifsud a Papadopoulos sarebbero quelle incautamente passate per i server privati della Clinton, non quelle hackerate al DNC.

Dunque, su quali basi veramente l’FBI ha aperto e proseguito l’indagine sulla Campagna Trump, se non c’era prova concreta che i russi avessero rubato le email del DNC e se non sembrava Papadopoulos l’uomo di Trump in contatto con i russi?

Forse, bisogna risalire ancora più indietro nel tempo, alla fine del 2015. Nella causa civile presentata dal Comitato nazionale democratico al Distretto Sud di New York il 17 gennaio 2019, contro una serie di soggetti, tra cui la Russia, il presidente Trump, Wikileaks, Assange, Mifsud e Papadopoulos, al punto 85 si sostiene che “a fine 2015, agenzie di intelligence europee cominciarono a riportare alle autorità Usa comunicazioni sospette tra persone associate alla Campagna Trump e operativi russi (inclusi sospetti agenti dell’intelligence russa). Questi rapporti sono proseguiti nell’anno successivo (il 2016, ndr)”.

Ehi, un momento, siamo a fine 2015, sette mesi prima l’apertura ufficiale di Crossfire Hurricane. E notizie di collusione arrivano da “agenzie di intelligence europee”. Londra e Roma le maggiori indiziate, secondo quanto abbiamo potuto ricostruire in questi mesi, ma significherebbe che il Russiagate è partito da fuori gli Stati Uniti, da attori stranieri alleati desiderosi di fare un piacere alla candidata che tutti, allora, davano per sicura vincitrice.