EsteriQuotidiano

Un’altra provocazione iraniana nello Stretto di Hormuz, ma stavolta il messaggio è diretto a Pechino

4.6k
Esteri / Quotidiano

Il 14 aprile scorso, uomini armati hanno assaltato una petroliera battente bandiera di Hong Kong, nelle acque dello Stretto di Hormuz. Secondo la United Kingdom Maritime Trade Organization, la nave è stata assaltata vicino alla costa iraniana nel Golfo di Oman, mentre navigava per raggiungere al-Jubail, in Arabia Saudita, e rilasciata poco dopo il blocco. Ufficialmente nessuno ha rivendicato l’azione, che quindi dovrebbe essere classificata come atto di pirateria. È molto probabile, però, che dietro l’assalto ci siano i Pasdaran iraniani.

Per quale motivo? A che pro assaltare una petroliera cinese, composta da un equipaggio interamente cinese, ovvero una petroliera del Paese che, per eccellenza oggi rappresenta l’alleato chiave della Repubblica Islamcia? Alcuni potrebbero sostenere che l’azione serve all’Iran per dimostrare di avere il controllo sullo Stretto di Hormuz, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, piazzati con la loro V Flotta in Bahrain.

Stavolta non sembra essere proprio così: il messaggio era diretto a Pechino. Già, perché, anche se ufficialmente Pechino non è responsabile delle navi di Hong Kong, dopo le nuove sanzioni imposte da Washington a Teheran (e nonostante gli waivers), praticamente tutti gli attori internazionali – anche quelli che pubblicamente si sono schierati a spada tratta con l’Iran – hanno di fatto ridotto notevolmente il loro import di petrolio dalla Repubblica Islamica. E la pandemia ha fatto il resto. A gennaio 2020, ad esempio, la Cina aveva ridotto il suo import di oil da Teheran a meno di 220 mila barili al giorno. Non solo: da questo export di petrolio verso la Cina – praticamente ormai il solo Paese che compra dall’Iran – gli iraniani vedono ben pochi soldi, perché sono rimasti incastrati nella classica rete degli investimenti cinesi: buona parte del petrolio che l’Iran esporta in Cina, infatti, va a coprire l’investimento di 5 miliardi di dollari che la China Petroleum & Chemical Corporation (Sinopec Group) e la China National Petroleum Corp (CNPC) hanno fatto nei campi petroliferi di Yadavaran e Azadegan (in Iran).

Nel frattempo, mentre la Cina tagliava il suo import di petrolio dall’Iran, aumentava quello proveniente dall’Arabia Saudita, che tra la fine del 2019 e i primi due mesi del 2020, è cresciuto di circa il 47 per cento, arrivando addirittura a oltre 6 milioni di barili esportarti da Riad verso Pechino nel dicembre del 2019. A conti fatti, e nonostante la disputa commerciale, Pechino ha chiaramente scelto di conformarsi alle sanzioni americane, sia perché il mercato petrolifero offre una serie di alternative a buon prezzo (soprattutto quando si tratta di Arabia Saudita contro Iran), ma anche perché arrivare ad una soluzione nel suo confronto con gli Stati Uniti è fondamentale.

Sia chiaro: l’Iran resta un alleato importante per la Cina, soprattutto quando si guarda alla mappa della Via della Seta. Ma si tratta di un alleato debole, che deve nei fatti adattarsi a quello che la Cina è disponibile a dare e non viceversa. Ciò vale soprattutto nel mondo post-coronavirus, dove Pechino rischia di diventare sempre meno “la fabbrica del mondo”, con effetti diretti sugli stessi investimenti cinesi all’estero. La Via della Seta resterà ufficialmente un punto cardine dell’imperialismo cinese, ma non sarà molto ciò che verrà concretamente realizzato nel prossimo futuro. Per il resto, nonostante la propaganda, Pechino dovrà pensare soprattutto a come salvarsi la pelle, perché con una crescita del Pil forse addirittura dimezzata, il rischio di un forte malcontento è sempre più concreto, nonostante le censure del regime.

In questo contesto, la Cina non guarderà in faccia a nessuno: prima dei porti iraniani può venire senza problemi quello pakistano Gwadar, prima del petrolio iraniano può tranquillamente esserci quello saudita e prima degli investimenti strategici in Iran per realizzare via terra la Belt and Road, deve arrivare assolutamente un grande accordo con gli Stati Uniti (e l’Occidente in generale), che permetta alla Cina di restare il riferimento industriale della nuova globalizzazione, o meglio, di quello che resterà in piedi della globalizzazione… Perché l’alternativa non sarà per Pechino una semplice revisione del suo progetto geopolitico: l’alternativa è il concreto rischio tornare indietro di trent’anni, stavolta però con una popolazione probabilmente non disposta a sopportare gli stessi sacrifici dei suoi padri…