Il 12 febbraio prenderà il via il processo ai prigionieri politici catalani, ritenuti colpevoli, dalla giustizia spagnola, del reato di ribellione. Tutto gira intorno al referendum del primo ottobre 2017. Figure di spicco della politica catalana sono incarcerate da più di un anno per il semplice fatto di aver dato a milioni di cittadini la possibilità di scegliere tra Spagna e Repubblica Catalana. E ora andranno incontro ad una condanna quasi certa. Alla sbarra mancherà il presidente Carles Puigdemont che, dal suo esilio in Belgio (a Waterloo), continua però a svolgere un compito fondamentale per il prosieguo del sogno della Repubblica Catalana.
Il progetto indipendentista non ha mai preso, come invece è successo da altre parti, una piega violenta, anzi chi ha messo in campo la violenza è stata proprio la Spagna con la forte repressione attuata dalla Guardia Civil. La natura pacifica del movimento catalano avrebbe dovuto portare Madrid ad un atteggiamento più conciliante. Un dialogo vero tra le parti non c’è mai stato e, per questo, non si può negare che le maggiori responsabilità sono del Partito Popolare di Mariano Rajoy. E ci troviamo ad assistere ad un evento mai visto nell’Europa libera, democratica e occidentale: un processo politico, un’intera classe dirigente davanti alla corte e trasportata dalla Catalogna a Madrid rinchiusa su un pullman come una qualsiasi banda criminale. Con una differenza: a seguire il percorso del mezzo, qualche giorno fa, c’erano migliaia di catalani che sventolavano le bandiere stellate per mostrare sostegno e supporto ai loro leader.
Ma di tutta questa storia, la cosa che più mi lascia stupito, è il silenzio assordante che la circonda. In pochi ne parlano, ancora meno è un “trend topic” per ben pensanti, eurolirici o per tutti quelli che sono pronti ad appelli e manifesti per molto meno o per pretestuose denunce di violazioni dei diritti (vedi Ungheria e Polonia). Mentre nel caso della Catalogna nessuno fiata, anche se i diritti alla libertà di espressione, di pensiero e soprattutto di autodeterminazione sono calpestati. I vari Juncker, Tusk hanno bollato la questione catalana come un affare interno alla Spagna. Se l’Unione europea subirà un tracollo, se crollerà, crollerà anche sulla e per la Catalogna. Perché anche in questo caso la nomenclatura europea, come il governo di Madrid, non è riuscita ad interpretare bisogni e volontà della gente, bollando le richieste catalane come antistoriche, e ha abbandonato un popolo europeista come lo erano i catalani, pur di mantenere lo status quo. Lo stesso Puigdemont, un tempo fortemente pro-Ue, ha dato un’impronta eurorealista o quantomeno poco europeista, al suo nuovo movimento politico “Crida Nacional per la Republica”. Bruxelles ha perso anche Barcellona, capitale di uno dei quattro motori d’Europa.
Quel pullman è ormai giunto a destinazione, un gruppo di dodici persone sarà processato perché ha un obiettivo secondo alcuni sbagliato, perché non c’è piena libertà nel cuore dell’Europa. Un gruppo di persone finirà alla sbarra per un’idea, forse per un sogno. Questo è difficile da accettare, come recita lo slogan della nuova campagna lanciata dall’Assemblea Nazionale Catalana #Makeamove, “fai una mossa”: bisogna fare qualcosa e bisogna farlo in fretta.