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Uno spettro si aggira per l’Italia (e l’Europa): lo spettro di Mario Draghi

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Una rilettura del discorso di Rimini: Draghi vuole la monetizzazione, Draghi non vuole il Mes. Ma che farebbe Draghi se i tedeschi non fossero d’accordo, se gli dicessero di no?

Il discorso – Uno spettro si aggira per l’Italia, lo spettro di Mario Draghi. Egli si esprime per detti sibillini, raccolti in un discorso pronunziato il 18 settembre in Rimini e scritto, francamente, molto male. Egli lo definisce non “una lezione di politica economica ma… un messaggio più di natura etica”. E, tuttavia, ci sono 350 varietà di squali senza contare i banchieri. Dunque partiamo dal presupposto che precisamente di un discorso di politica economica si tratti.

Lo si capisce subito, dall’incipit, che è invero un abstract (un compendio di quanto seguirà, alla maniera degli articoli scientifici). Prima presenta le proprie pretese credenziali:

“Dodici anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò”.

Poi riassume ciò che è venuto a dire:

“Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario (…) Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada”.

Ma deve pure soddisfare l’uditorio, dunque svolge l’abstract in 18.804 caratteri, recitati in 31:40 minuti: il discorso vero e proprio.

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In ordine, [1] Draghi comincia tirando le somme dell’ultimo proprio precedente intervento, a marzo sul Financial Times: “i governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace. Aldilà delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta“; in quanto, “si è evitato che la recessione si trasformasse in una prolungata depressione”.

[2] Egli è il primo a riconoscere che, nel processo, “molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie … sono state sospese“. Ma lo rivendica: lo si è fatto, “per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni. Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda: when facts change, I change my mind. What do you do sir?”. Un richiamo esplicito allo slogan dell’articolo di marzo, che era stato: “a change of mindset”, una rivoluzione mentale.

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[3] Tuttavia, l’epidemia prima o poi finirà e, con essa, “i provvedimenti da essa giustificati”: “i sussidi finiranno”. Quando, non lo sa manco lui, ma è venuto a dire che, nel durante: “ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire”. Cioè, adesso dobbiamo scegliere cosa fare quando la pandemia sarà finita.

[4] L’unico suggerimento di Draghi è di “non … dimenticare l’importanza dei principii che ci hanno sin qui accompagnato“. Quali? “l’adesione all’Europa … il multilateralismo”: questi stessi “principi” debbono restare fermi, ma di essi debbono cambiare l’ordinamento, l’assetto. Egli ammette che tale cambiamento produca una “incertezza, caratteristica dei percorsi verso nuovi ordinamenti“. Ma tale incertezza è incommensurabilmente inferiore a quella che deriverebbe dal “dimenticare l’importanza dei principii che ci hanno sin qui accompagnato”, dal “subitaneo abbandono di ogni schema di riferimento sia nazionale, sia internazionale”, verso “una realtà senza più punti di riferimento”: in tal caso non di semplice incertezza si parlerebbe, bensì di “disorientamento” “profondamente destabilizzante“.

Per spiegarsi, fa alcuni esempi. Anzitutto tre di semplice incertezza: la crisi del WTO e “l’impossibilità di giungere a un accordo mondiale sul clima”, eppoi, “l’inadeguatezza … da tempo evidente”, nientemeno de “il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato”, che si sono meritati un “crescente scetticismo, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano e dell’euro”; essi non sono stati sin qui corretti “per inerzia, timidezza e interesse“. Draghi tale semplice incertezza la accetta: “dobbiamo ora pensare a riformare l’esistente senza abbandonare i principi” suddetti. Poi due esempi di incertezza destabilizzante: prima fa riferimento “agli anni ’70 del secolo scorso, a politiche erratiche e certamente meno efficaci, a minor sicurezza interna ed esterna, a maggiore disoccupazione”; poi a quando la suddetta “critica precisa e giustificata” alle regole europee, “si lasciò … che … divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente”.

[5] Messi da parte i cattivi populisti, egli si dichiara fiducioso: “il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente”. Ma è un futuro lontano: “ci deve essere di ispirazione l’esempio di” Keynes e De Gasperi, i quali “immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse“. Così noi, dobbiamo riflettere su “le nostre regole europee … La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito”.

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[6] Va bene, ma nel frattempo che continua la guerra? Nel frattempo che ne facciamo de “il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato”, che Draghi ha testé tanto criticati? No problem: “è probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale”. Ma è un ‘certamente’ da lui in nessun modo giustificato: teleologico, come poi si vedrà.

[7] Dunque, nel frattempo che continua la guerra: liberi tutti? No – continua Draghi – perché la sospensione delle regole europee, “sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo”. E tale debito “sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se”: “se utilizzato a fini produttivi” (“debito buono”, altrimenti sarebbe “debito cattivo”), se i governi opereranno con “trasparenza e condivisione” e se, contestualmente, si otterrà “il ritorno alla crescita”. Quest’ultimo è, oggi, “un imperativo assoluto”: affinché il debito sia sostenibile.

[8] Tuttavia, per tornare alla crescita, il debito buono non basta: occorre pure “un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie” ne “l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani” che Draghi dice “essenziale per la crescita”. Badando bene a specificare che si tratterebbe di “preparare i giovani a gestire il cambiamento e l’incertezza nei loro percorsi di vita, con saggezza e indipendenza di giudizio” … e non di finanziare “sistema sanitario … protezione dell’ambiente … digitalizzazione”, perché questi ultimi sarà possibile finanziarli, solo una volta ottenuti “il ritorno alla crescita e la sostenibilità”. Ma, escluse queste voci, del citato “massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie” resterà unicamente lo “investimento di intelligenza”: nulla che non si possa ottenere con un dizionario greco-italiano, magari il buon vecchio Rocci del papà o del nonno. Insomma, Draghi dice: per tornare alla crescita, il debito buono non basta, occorre pure che gli studenti tornino a studiare. E poi … bla bla bla … “una ragione morale … il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani”. Ci sono 350 varietà di squali senza contare i banchieri.

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[9] Per tornare alla crescita, il debito buono e gli studenti che tornano a studiare non bastano: occorre pure “disperdere l’incertezza che oggi aleggia sui nostri Paesi”. Perché ciò accada, “questa affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme, questa visione comune del futuro che vogliamo costruire si deve ritrovare sia a livello nazionale, sia a livello europeo”. In altri termini, per tornare alla crescita, occorre cambiare l’Europa verso la federazione. Draghi richiama implicitamente il concetto, con una traslazione semantica: la guerra alla quale egli paragona la crisi economica del Covid, era Prima Guerra Mondiale nell’articolo di marzo; diviene la Seconda Guerra nel presente discorso di Rimini.

[10] E qui casca l’asino. Perché Draghi è il primo a sapere che “la pandemia ha … resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei” ed è il primo a sapere che il bilancio federale è un miraggio lontano: “la creazione di un bilancio europeo, anch’essa prevedibile nell’evoluzione della nostra architettura istituzionale, un giorno correggerà questo difetto che ancora permane”. Due mesi dopo il tanto celebrato accordo di Bruxelles, il Recovery Fund lo cita appena, solo in quanto: rimetterebbe la Commissione “al centro dell’azione” e può “diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo”; pure tale esito sarebbe solo “il principio di un disegno” (campa cavallo) e, per giunta, “dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale” (cioè, è tutt’altro che scontato). Solo se tutto filasse liscio, “allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia [cioè la sospensione de “le nostre regole europee”] sono temporanei”: sennò sarà cambiato niente. Il che significherebbe, chiosiamo noi, che “il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato”, che Draghi ha testé tanto criticati, tornerebbero bel et bien a tormentarci, come prima, più di prima. Un rischio cui lui stesso ha fatto riferimento nel citato precedente passaggio, in cui afferma che “le nostre regole europee” non sono state sin qui corrette “per inerzia, timidezza e interesse“: interesse di chi, non lo dice, ma nemmeno spiega perché tale interesse dovrebbe essere nel frattempo cambiato.

[11] In questo campo di Agramante, una sola luce: “l’azione dei governi poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria”. Poco prima aveva detto che “i bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità”, dando quindi per scontato che la politica monetaria resterà espansiva. Sempre lì siamo: senza il QE ed il PEPP di Bce, l’Eurozona non esisterebbe più da un pezzo.

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Insomma, [1] la direzione della risposta al Covid è stata corretta, [2] dunque è stato giusto che molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie siano state sospese. [3] Tuttavia, l’epidemia prima o poi finirà e ora dobbiamo scegliere il futuro che vogliamo costruire e, [4] nel farlo, dobbiamo tenere fermi l’adesione all’Europa e il multilateralismo, [5] ma tempo ne abbiamo, in quanto siamo come De Gasperi nel 1943. [6] Nel frattempo le regole europee resteranno sospese [7] e noi dobbiamo spendere solo per investimenti a fini produttivi. [8] Tuttavia, per tornare alla crescita, occorre che gli studenti tornino a studiare. [9] Per tornare alla crescita, occorre pure cambiare l’Europa, [10] ma il bilancio federale è un miraggio lontano e il Recovery Fund è tutt’altro che scontato, [11] sicché, per ora c’è solo la politica monetaria. Questo ha detto Draghi.

Per una interpretazione del discorso – A Draghi vorremmo obbiettare che è vero che la politica monetaria è molto potente, nel bene e nel male: nel citato passo dell’abstract (“si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò”) egli stesso ricorda che Trichet ci ha quasi distrutto l’Eurozona. Ma Draghi dimentica di aver attivamente collaborato: vedi lettera Draghi-Trichet del 5 agosto 2011. E mente, quando implica che l’Italia superò quella depressione e deflazione: nella cruda realtà, l’Italia è stata in depressione e quasi-deflazione da allora sino al Covid. Insomma, a prima vista non si capisce perché, questa volta, la stessa medicina dovrebbe avere un esito diverso.
Dobbiamo dunque interrogare il testo. Dal 2011 è mutata la posizione di Draghi, lo dice esplicitamente, benché con una citazione scelta apposta in quanto atta a negare ogni forma di autocritica: “when facts change, I change my mind”. Poi, sono radicalmente migliorate la posizione commerciale esterna ed esterna netta dell’Italia; ma egli non le cita, quindi si deve supporre non attribuisca loro la dovuta importanza. L’unica altra cosa che è cambiata è la sospensione de “le nostre regole europee”; dobbiamo, dunque, supporre che Draghi attribuisca virtù salvifica a tale sospensione: questa volta sarebbe diverso perché lo Stato italiano potrebbe pienamente profittare del QE e del PEPP per spendere di più.

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A conforto di tale interpretazione, notiamo come essa sia coerente col precedente intervento di Draghi (il citato articolo di marzo), in cui egli alla Ue aveva riservato un mero richiamino in chiosa, mentre invocava un drastico aumento del debito pubblico e spostava tutto il peso su Bce: “such an increase in government debt will not add to its servicing costs”, il costo del debito sarà nullo.

Ad ulteriore conforto, una intervista di aprile, nel quale Macron aveva invocato di “calmer la mondialisation”, calmare la mondializzazione, in quanto “essa ha, ai miei occhi, due grandi problemi: crea disuguaglianze nei Paesi sviluppati, ed è stata accompagnata da un’emergenza, un gioco di potere che riscopre la grammatica della sovranità”, poi spiega “cosa uno Stato responsabile nei confronti del proprio Popolo deve poter decidere? Della materia sanitaria, tecnologica, industriale, militare, oggi non so essere esaustivo, ma quelle cose ci sono” … il che equivale bel et bien a rinnegare il Trattato europeo, parte vincoli di bilancio ed aiuti di stato. Eppoi mezzi abbondanti disponibili pure per Italia, Spagna e Grecia, sennò “non ci sarà più un’avventura comune. Perché se non sappiamo come farlo oggi, ve lo dico, i populisti vinceranno … non so come avrà principio, ma è evidente” … il che equivale bel et bien a rinnegare il Trattato europeo, parte che vieta: la monetizzazione presso banca centrale (art. 123 TFUE), l’accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie (art. 124 TFUE), l’estensione degli impegni finanziari agli altri Stati o alle istituzioni Ue (art. 125 TFUE).

Infine, dei molti che hanno commentato questo discorso di Rimini, notiamo Domenico Siniscalco, il quale ha omesso il riferimento a “le nostre regole europee”, limitandosi a riferire che Draghi avrebbe chiesto di “ridisegnare il Wto e le principali istituzioni multilaterali”. Gianni Trovati, Marco Bentivogli, Alessandro Barbera, Massimiliano Panarari, Pietro Garibaldi, Marcello Sorgi, non citano nemanco il Wto, addirittura. Nonostante ciò sia loro costato la necessità di omettere pure la critica di Draghi al “messaggio populista”, in quanto quest’ultimo messaggio e la “critica precisa e giustificata” alle regole europee, nel discorso sono troppo intimamente legati; chi non resiste alla tentazione è Tonia Mastrobuoni, la quale tiene troppo a sottolineare l’attacco ai ‘populisti’, dunque è costretta a far sapere al lettore pure della critica alla regole, ma lasciandola lì, a penzoloni nel vuoto. Preferendo i più far finta che Draghi abbia voluto incentrare il discorso su ‘i ggiòvani’, sino alla vetta assoluta raggiunta da Stefano Massini, che letteralmente accosta il nostro a Greta Thunberg. È questo un caso in cui tante omissioni valgono una prova.

Dunque sì, a noi pare che Draghi abbia effettivamente detto che questa volta sarebbe diverso perché lo Stato italiano può pienamente profittare del QE e del PEPP per spendere di più (seppure solo in investimenti a fini produttivi).

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In tal modo, egli rende esplicita la funzione di Bce come finanziatore degli Stati; in violazione del divieto al finanziamento monetario ex-art. 123 TFUE. Ma che Draghi abbia disegnato il QE esattamente per quello scopo, è pacifico in letteratura, vedi ad esempio il presidente Barra Caracciolo: “il QE e la sua indiretta funzione di finanziamento strisciante, a vocazione discrezionale e condizionale, operato dalla Bce che, dal punto di vista della Germania, aggirano le norme dei trattati, violandole”. Draghi vuole la monetizzazione.

In secondo luogo, ciò appare perfettamente incompatibile con la Troika: non v’è chi non sappia che il finanziamento del Mes-Sanitario costringerebbe al Full-Mes il quale, a sua volta, richiederebbe una preventiva ristrutturazione del debito pubblico italiano e che sarebbe comunque un finanziamento limitato come pure limitato sarebbe il finanziamento di Bce (detto OMT, sorta di QE per un solo Paese) che il Mes si porterebbe dietro; non v’è chi non sappia che ciò impedirebbe all’Italia di sfruttare la sospensione de “le nostre regole europee”, la quale quindi non avrebbe mai il potere salvifico che Draghi nel discorso sembra attribuire loro. Draghi non vuole il Mes.

Draghi vuole la monetizzazione, Draghi non vuole il Mes. Ma che farebbe Draghi se i tedeschi non fossero d’accordo, se gli dicessero di no: se bloccassero Bce, magari dando conclusione logica alla sempre aperta questione di Karlsruhe; magari d’accordo coi loro amici olandesi? D’altronde, questi ultimi minacciano di bloccare ogni spesa straordinaria della Ue fino alle proprie elezioni di marzo eppoi sino alla formazione del loro nuovo governo (l’ultima volta, ci misero 225 giorni) eppoi all’anno del mai; nessuno sta anche solo pensando a modificare il Trattato; e, a Draghi che in marzo aveva invocato pure l’oblio della regolamentazione bancaria prudenziale, risponde oggi nein il supervisore bancario europeo.

Ebbene, cosa farebbe in tal caso Draghi? Nel discorso non lo accenna nemmeno, ma tanto non v’è chi non sappia che, se i tedeschi gli dicessero di no, saremmo di fronte ad un’alternativa secca: o i francesi si prenderanno una Bce vedova dei tedeschi e dei loro sodali, oppure l’Italia porrà fine alla libera circolazione dei capitali. Tertium non datur e, infatti, Draghi stesso non discute la possibilità che “le nostre regole europee” vengano riattivate nella loro forma attuale. Questa è la chiave del discorso.

Già scrivemmo, su Atlantico lo scorso aprile: “il giorno che Conte e Gualtieri avranno posto fine alla propria agonia, è possibile che Draghi giunga: non per un mero cambio di cavallo, a seguire le stesse politiche di pria; bensì per un cambio di politica. Eventualmente radicale”.

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