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Uno sprazzo d’Occidente: non un regime change, ma nemmeno la Siria in mano a Russia e Iran

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Un raid molto misurato, in linguaggio diplomatico “proporzionato” – la parola usata per descriverlo dal segretario alla Difesa Usa Jim ‘mad dog’ Mattis – e “one shot”, singolo colpo, di precisione chirurgica. Per analizzare l’azione militare condotta da Stati Uniti, Francia e Regno Unito contro il regime di Assad, il suo significato politico e le possibili conseguenze, occorre partire dai fatti, facendosi largo nella giungla di slogan e propaganda.

Innanzitutto, una premessa, per chi è affamato di “prove” sul presunto attacco con armi chimiche su Douma. Se qualcuno si aspetta “prove” che reggano davanti al tribunale penale di uno stato di diritto occidentale, o si illude, non avendo compreso cosa siano le relazioni internazionali e le guerre, o è in malafede. Una “prova” sta nella diversa credibilità tra i governi di Stati Uniti, Francia e Regno Unito da una parte, che operano in sistemi politici dove rischiano di essere smentiti da un momento all’altro da fonti a loro interne, e dall’altra Putin, gli ayatollah e il macellaio Assad, di cui è accertata la responsabilità di molteplici stragi con armi chimiche, tra cui quelle nella Ghouta del 2013 e a Khan Sheikoun nel 2017. Un’altra “prova”? Chi parla di operazione “false flag” lo fa sulla base di congetture, chiedendo prove a chi accusa Assad ma non fornendone nemmeno l’ombra per supportare la tesi di un complotto estremamente complicato da attuare sul terreno. La principale “prova” a discolpa di Assad è in realtà un argomento di mera logica: possibile sia così scemo da usare armi chimiche, attirando su di sé l’attenzione della comunità internazionale, proprio ora che sta vincendo la guerra? E’ lo stesso argomento usato per discolparlo dall’attacco di un anno fa. La stava vincendo anche allora, la guerra, ma è passato un anno. Quando la vince? E’ un argomento che ha una certa presa, ma che potrebbe essere facilmente ribaltato: proprio perché sa che sta vincendo la guerra, e che rischia al massimo un attacco simbolico e “telefonato” non in grado di sovvertirne l’esito, non teme di usarle a piccole dosi, per scopi tattici.

In realtà, è l’assunto di partenza che rischia di essere fuorviante: Assad sta davvero vincendo la guerra? Sì, nel senso che i suoi avversari – dall’Isis ai ribelli sostenuti dalle potenze avversarie – non hanno la forza di vincerla. Ancora no, nel senso che vaste aree del Paese non sono ancora sotto il suo controllo (americani e curdi controllano la zona a est dell’Eufrate, ricca di risorse petrolifere, i turchi e i gruppi ribelli a loro vicini il nord-ovest), ma soprattutto sacche di resistenza di migliaia di guerriglieri restano come spine nel fianco tutte intorno alla capitale, Damasco. E siccome dopo sette anni di guerra l’esercito di Assad è decimato, e Putin non ha alcuna voglia di rischiare i suoi, non potendo permettersi di stanare i ribelli casa per casa, pagando un alto prezzo di vite, ecco che le ragioni per un uso tattico delle armi chimiche emergono e appaiono abbastanza convincenti. Inoltre, non scordiamo che c’è una popolazione civile, a maggioranza sunnita, che gli si è rivoltata contro e che dev’essere persuasa con il terrore che ogni resistenza è vana. Si tratta di ottenere una resa non solo militare, ma anche psicologica degli oppositori.

Tornando al raid di sabato mattina: i fatti. Sono stati colpiti un centro di ricerca sulle armi chimiche nei pressi di Damasco, due siti di stoccaggio e un centro di comando nell’area a ovest di Homs. Secondo alcune fonti, anche la base di Dumayr da dove sarebbero partiti gli elicotteri che avrebbero condotto l’attacco su Douma il 7 aprile scorso. Il regime di Damasco rivendica di aver intercettato e abbattuto oltre la metà dei missili lanciati, ma è più verosimile un 10 per cento.

Alla luce di quanto realmente avvenuto, chi avanza parallelismi tra i raid in Siria e gli interventi in Libia e in Iraq, per rimuovere Gheddafi e Saddam Hussein, aggiungendo prediche come “non hanno imparato niente dagli errori del passato”, o analisi del tipo “colpendo Assad, l’Occidente favorisce i ribelli jihadisti”, è completamente fuori strada, anche qui o non ha capito nulla o è in malafede.

Gli interventi in Siria non mirano né preludono a un “regime change” a Damasco. L’amministrazione Trump è da sempre attentissima, selezionando obiettivi strettamente legati all’uso di armi chimiche, affinché le intenzioni non siano equivocate dalle controparti. L’obiettivo americano in Siria è ancora principalmente la definitiva sconfitta dell’Isis. Certo, il raid dell’altra notte risponde ad altri interessi, che vedremo in seguito, ma non c’entra con la rimozione di Assad a suon di bombe, in nessun modo è in grado di modificare i rapporti di forza in Siria a svantaggio del regime e dei suoi sponsor, né era finalizzato a questo. Ha prevalso la linea Mattis, e quella più cauta di Parigi e Londra, mentre secondo alcuni retroscena il presidente Trump e il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton avrebbero spinto per un attacco più massiccio, ma sempre escludendo un maggiore coinvolgimento Usa nel conflitto siriano che potesse somigliare a un regime change.

Un attacco poco più che simbolico, dunque. Ma i simboli, in politica, e ancor di più in politica internazionale, contano. E lo strumento militare fa parte a pieno titolo degli strumenti della politica estera. Chi è rimasto deluso, perché auspicava un attacco più esteso, una punizione più severa, paventando il rischio che a Damasco, a Mosca e a Teheran non venga preso sul serio e si sentano comunque autorizzati a tirare la corda, o chi addirittura sperava in un intervento per far cadere Assad, non dovrebbe sottovalutare alcuni fatti.

Dopo il vuoto lasciato in Siria e in Iraq dalla precedente amministrazione, puntare ora a far cadere Assad significherebbe un intervento massiccio sia dal cielo che di terra, scontrarsi direttamente con Russia e Iran, e ammesso di avere la meglio prendersi la patata bollente della stabilizzazione e della ricostruzione, decidendo chi mettere al suo posto, il tutto tra gruppi jihadisti, popolazione stremata e ostile, e potenze rivali furiose. Un’operazione che non troverebbe tra l’altro alcun consenso in Occidente, proprio visti i precedenti in Iraq e Libia. Dal punto di vista del processo politico – i temi estromissione di Assad e futuro della Siria – la linea dell’amministrazione Trump è invece quella di sabotare il processo di Astana e costringere Putin a impegnarsi in quello di Ginevra, indurlo al compromesso, allontanandolo da Teheran. Assad ha quasi vinto militarmente, sarebbe costosissimo cacciarlo con la forza, ma si può tentare di impedirne una vittoria politica, ostacolare una stabilizzazione della Siria funzionale agli interessi di Russia e Iran. Su questo, gli Stati Uniti (e Israele) hanno dimostrato di non voler lasciare campo libero a Mosca e Teheran. Putin ascolterà? Di certo non vuole un Vietnam russo o un nuovo Afghanistan.

L’attacco è stato della stessa natura – dimostrativa e punitiva rispetto alla violazione della “linea rossa” sull’uso di armi chimiche – di quello dell’aprile 2017, ma molto più duro, almeno il doppio come forza militare espressa: le navi americane da sole hanno lanciato 118 missili, esattamente il doppio dei 59 lanciati un anno fa contro la base aerea di al Sheyrat. Non un solo obiettivo, stavolta tre. Vero: come un anno fa i russi sono stati preallertati sugli obiettivi. Ma come un anno fa, non hanno mosso un dito. La loro capacità di difendere i propri alleati nella regione si è finora fermata di fronte alla volontà di Washington (e Gerusalemme) di colpirli. Il presidente Trump aveva parlato in un tweet molto criticato di missili “carini, nuovi e intelligenti” in arrivo. Sono arrivati. La Russia aveva minacciato di “abbattere tutti i missili in volo e distruggere le piattaforme di lancio”, quindi le navi americane da cui sarebbero partiti. Siamo ancora in attesa… Per ora, si è limitata a denunciare “l’aggressione” e a minacciare che “non resterà senza conseguenze”. Per la seconda volta in due anni.

Ma soprattutto, sul piano politico, questa volta l’America di Trump non ha agito da sola, ma insieme a Francia e Regno Unito. Le tre democrazie membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, le tre potenze nucleari occidentali. Da quanto non succedeva? Questo fornisce il massimo della legittimità internazionale all’operazione, dal momento che qualsiasi risoluzione sarebbe stata bloccata dal veto russo.

Non solo Parigi e Londra. Il raid è stato salutato con favore dal presidente turco Erdogan, che almeno momentaneamente ha smesso i panni di alleato di Putin nella spartizione della Siria per comportarsi da membro Nato – un segnale incoraggiante – evidenziando così tutta la fragilità e le contraddizioni insite nel processo di Astana promosso dal presidente russo e incrinando per la prima volta l’asse Mosca-Ankara-Teheran. Anche il sostegno di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar contribuisce a mettere sotto pressione russi e iraniani, isolati e sulla difensiva come non lo erano mai stati dall’inizio del loro intervento in Siria.

Negli otto anni di Obama, in Siria non si muoveva un dito per non disturbare gli iraniani e non compromettere così l’accordo sul nucleare; i russi si sono presi la Crimea e sono entrati stabilmente nel Mediterraneo e in Medio Oriente, tornando centrali in una regione da cui erano esclusi da decenni. In pochi lo hanno ricordato in questi giorni, ma secondo un accordo Usa-Russia del 2013 di cui Mosca si era fatta garante, il regime di Damasco avrebbe dovuto consegnare tutte le sue armi chimiche (alcune dovevano arrivare anche in qualche porto italiano, ricordate le polemiche?). Un’altra occasione in cui Putin si prese gioco di Obama… e gli stessi che allora celebravano l’accordo come un suo grande successo diplomatico oggi accusano Trump a giorni alterni, o di scatenare la terza guerra mondiale o di fare troppo poco contro Assad e Putin. Ancora nel gennaio 2017, poco prima di lasciare la Casa Bianca, Obama rivendicava che “almeno Assad aveva dovuto disfarsi delle armi chimiche”. Ad aprile l’attacco a Khan Sheikoun…

Sbaglia quindi chi sostiene che in fondo non sia cambiata la politica Usa in Siria: certo non c’è il regime change, ma oggi c’è una “linea rossa” non solo enunciata. Una linea rossa condivisa da tre democrazie occidentali, non una. Una buona notizia, un elemento di chiarezza e un piccolo fattore di stabilità nell’attuale disordine internazionale, perché non riguarda solo le armi chimiche di Assad, ma anche i programmi nucleari portati avanti da Iran e Corea del Nord. Oggi c’è una zona di influenza americana, a est dell’Eufrate e a sud, l’avamposto di al-Tanf. Oggi gli Stati Uniti sono tornati al fianco dei loro alleati storici, Israele in primis, che a sua volta negli ultimi giorni ha compiuto due pesanti raid contro le basi siriane in cui sono rimasti uccisi militari iraniani.

Dunque, nessuno si sta lanciando in una nuova impresa di regime change e nation building. Non ci sarebbe nemmeno il consenso delle opinioni pubbliche, meno che mai dell’elettorato che ha portato Trump alla Casa Bianca e il presidente di questo è perfettamente consapevole. Esiste una “stanchezza” generalizzata, e giustificata, dei cittadini americani per le guerre, per i costi economici e umani che hanno dovuto sopportare negli ultimi decenni. Interventi di lungo termine, la cui impopolarità è derivata anche dal non poterne intravedere la conclusione e dal non sapere bene quali fossero i veri obiettivi, le condizioni per la vittoria, essendo per lo più reattivi e di contenimento delle minacce. Trump ha promesso agli americani di agire esclusivamente negli interessi degli Stati Uniti: è finita l’epoca dell’ombrello militare Usa messo a disposizione “gratis” e dell’interventismo idealista, per ragioni morali. Dalla fine della Guerra Fredda la politica estera americana l’hanno guidata i wilsoniani, nella versione neocon con Bush jr e liberal con Obama e Clinton. Ora è il momento dei jacksoniani, il cui approccio però non è isolazionista ma nazionalista: la difesa dell’interesse nazionale, laddove necessario con la forza. Il presidente Trump e la premier britannica May, così diversi per estrazione e cultura politica, respingono l’interventismo liberal, credono invece in una politica estera e di difesa realista e muscolare.

Questi raid rispondono a un duplice e più generale interesse di sicurezza nazionale: ristabilire la credibilità della deterrenza americana e occidentale, soprattutto riguardo l’uso di armi di distruzione di massa e programmi nucleari; e difendere la sfera d’influenza americana in Medio Oriente, indebolita dalle politiche di Obama e minacciata dall’espansione russa nel Mediterraneo e dalle mire egemoniche degli iraniani, che sono vicini a completare una “mezzaluna sciita”, una continuità territoriale e politica tra Iran, Iraq, Siria e Libano.

Sabato mattina abbiamo assistito ad uno sprazzo d’Occidente, un lumicino nella notte (che sarà ancora lunga, se solo guardiamo alle reazioni qui in Italia…). Di fronte a tutto questo il problema sarebbe Trump? Almeno, quando fa una mezza cosa giusta, onestà intellettuale imporrebbe di riconoscerglielo. Senza di lui alla Casa Bianca non ci sarebbe stato alcun attacco. Né oggi né un anno fa. Nessuna pressione su Russia e Iran. Che al di là della loro propaganda, sono costretti sulla difensiva, in grande difficoltà, perché la Siria è ancora un pantano e hanno raggiunto o sono molto vicini a raggiungere i limiti dello sforzo militare che possono permettersi. Non basta ancora, c’è tanto da fare prima di ottenere dei risultati politici, ma è qualcosa. E’ la direzione giusta.

Qui in Italia nel frattempo leggiamo e ascoltiamo i soliti “esperti” distribuire sarcasmo un po’ per tutti, esercitarsi in facili ironie e snobismo da salotti e centro studi, con zero analisi… Cose che ammesso e non concesso siano giustificate, noi, qui in Italia, non possiamo davvero permettercele.

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