Il regime iraniano ha annunciato la ripresa dell’arricchimento dell’uranio al 20 per cento, nell’impianto sotterraneo di Fordow. È una decisione pericolosa, che non soltanto viola l’accordo del 2015 sul programma nucleare, a cui Teheran volontariamente ancora aderisce, ma avvicina la Repubblica Islamica ad una soglia intermedia e pericolosa di arricchimento, che può facilmente essere portata verso il 90 per cento, quella necessaria per costruire la bomba nucleare.
A dare notizia della decisione iraniana è stato direttamente il portavoce dell’Agenzia Atomica iraniana Behrouz Kamalvandi, dopo il parere positivo del presidente Rouhani. Secondo Kamalvandi, la decisione del governo iraniano segue la nuova legge approvata dal Parlamento denominata “Azione strategica per revocare le sanzioni”, che “impegna” il governo a produrre 120 chilogrammi di uranio arricchito al 20 per cento in breve tempo.
Quando fu approvata questa legge, il presidente Rouhani si ribellò, sostenendo che le questioni nucleari non erano competenza del Majles. Non solo: si oppose pubblicamente, sostenendo che colpiva gli interessi diplomatici della Repubblica Islamica. Parlando ad una riunione di Gabinetto, Rouhani fece anche intendere che la legge fosse il frutto della decisione dei parlamentari di posizionarsi politicamente, in vista delle elezioni presidenziali del giugno 2021.
Qual è, dunque, il significato politico del passo avanti del regime iraniano sul nucleare, approvato da Rouhani stesso? Le letture possibili sono due. La prima, quella più immediata, è quella che Rouhani si sia convertito sulla via di Damasco, appoggiando le posizioni più oltranziste per fini elettorali. Ma, se questa fosse la ragione, non si spiegherebbe la sua pubblica opposizione alla legge approvata dal Majles appena un mese fa e il suo invito a Biden a ritornare nell’accordo nucleare. Ad ogni modo, letto in questo modo, l’arricchimento al 20 per cento potrebbe anche essere stata una scelta diplomatica iraniana per forzare la mano e convincere Biden a ritornare nel Jcpoa per mezzo della minaccia.
La seconda lettura è che il Parlamento iraniano sia ormai nelle mani di ultraconservatori fedeli alla Guida Suprema Khamenei. A presiedere il Parlamento c’è l’ex sindaco di Teheran, Mohammad Baqer Qalibaf, già membro dei Pasdaran e interessato a correre per la presidenza nel giugno del 2021. Insomma, secondo questa seconda ipotesi, Rouhani più che protagonista di questa decisione, sarebbe un mero esecutore. Letta in questo senso, la figura del presidente – così come quella del ministro degli esteri Zarif – si dimostra sempre più secondaria all’interno del sistema di potere del regime iraniano.
Nuovamente si dimostrerebbe quindi che in Iran il centro di potere è altrove rispetto alle “istituzioni tradizionali”. Il centro di potere reale è quello che gravita intorno alla Guida Suprema e alle Guardie Rivoluzionarie, poco interessate ad un nuovo accordo con gli Stati Uniti, per poter lucrare al massimo finanziariamente, nel nome della “jihad economica”. Che il vero potere politico ed economico in Iran risieda nello Stato parallelo è cosa nota. Averne una riprova è sempre importante, per capire come davvero funziona il regime in Iran.
Se poi la lettura esatta dovesse rivelarsi la prima – Rouhani complice e non mero esecutore – si avrebbe l’ennesima conferma che il presidente iraniano non è mai stato un moderato, ma un alleato delle frange più estremiste del regime. Ma d’altronde, anche in questo caso, non sarebbe una vera sorpresa, dato che Rouhani è la stessa persona che – per sua stessa ammissione – negoziò nel 2003 l’accordo di Teheran con il gruppo E3 (Germania, Francia e Gran Bretagna), solo per prendere tempo e far completare al regime indisturbato gli impianti di arricchimento clandestini.