Joschka Fischer è una personalità non banale, nel consenso o nel dissenso con le sue tesi: è l’uomo che, dopo aver fondato i verdi tedeschi, li ha portati su posizioni più “governanti” e meno ideologiche, e lui stesso si è cimentato con la sfida di essere ministro degli esteri in una fase caldissima, quella dell’intervento Nato in Kosovo, di cui fu supporter nonostante la sua storia così marcatamente di sinistra.
Nei giorni scorsi, un suo intervento è rimbalzato sui media internazionali (non in quelli italiani: e ciò non stupisce) a proposito della contesa tecnologica e geopolitica tra Usa e Cina.
Fischer prende le mosse, nel suo ragionamento, dalla rottura tra Google e Huawei, dovuta alle pressioni e alla campagna dell’amministrazione Trump, con relativo divieto per il gigante cinese di usare il sistema Android e una serie di servizi e funzionalità correlate. È immaginabile che per Huawei si tratterà di un colpo molto duro. Il messaggio è chiarissimo: non si tratta di una contesa solo tecnologica, ma di una sfida geopolitica globale.
Ovviamente ci saranno anche implicazioni tecnologiche: la Cina dovrà fare da sé sia sui software sia sulla componentistica, e questo aprirà la strada (se alcuni competitor europei vorranno far tesoro dell’occasione, da Nokia a Ericsson) a nuove opportunità di concorrenza e competizione.
Ma – a nostro avviso giustamente – Fischer si sofferma soprattutto sull’aspetto geopolitico della questione: il mondo sarà sempre più inevitabilmente diviso in due sfere di influenza, quella legata a Washington e quella sino-centrica, con un confronto muscolare sia sul terreno economico sia su quello geostrategico.
Inutile recuperare qui (i lettori di Atlantico hanno familiarità con il tema) la nota teoria della “trappola di Tucidide”, e cioè, a somiglianza di quanto accadde tra Sparta e Atene ai tempi della Guerra del Peloponneso, l’alta probabilità teorica di una escalation – e perfino di un conflitto – tra una potenza emergente e una potenza pre-esistente. È auspicabile che non accada lo stesso tra Pechino e Washington, e che per un verso qualche criticità economica avvertita in Cina e per altro verso la scadenza delle presidenziali del 2020 inducano le parti a un qualche compromesso.
Ma questo compromesso deve essere migliorativo della situazione esistente, dal punto di vista occidentale. Deve ridurre i comportamenti scorretti, per non dire inaccettabili, di Pechino sul terreno del commercio globale. E deve mantenere un’assoluta primazia (nel nostro mondo, nella nostra sfera) degli attori e dei player occidentali nelle telecomunicazioni e nella nuova sfida del 5G, a meno di voler consegnare a Pechino l’equivalente moderno di un “interruttore” in grado di accendere, spegnere, e soprattutto controllare ogni cosa, tutti i gangli vitali della società e della comunicazione mondiale.
E qui si arriva al punto. Nel nostro Occidente, non sarà più possibile non scegliere la metà campo in cui schierarsi, o tenere comportamenti geopoliticamente ambigui. Il recente MoU tra Roma e Pechino, come su queste colonne abbiamo ripetutamente ribadito, è un errore politico grave. E Fischer ha mano felice quando spiega che sbaglierebbe la sinistra mondiale se ritenesse il problema solo legato all’amministrazione Trump: il confronto non è tra Cina e destra Usa, ma tra Cina e Occidente, senza distinzioni.
Fischer chiude auspicando che l’Europa definisca una sua strategia. Noi, che crediamo poco o nulla in questa Ue, pensiamo che tocchi invece ai singoli stati scegliere il loro posizionamento. E un magazine che si chiama Atlantico non ha dubbi su quale sia la nostra sfera di destino e di appartenenza naturale.