L’esito del vertice che si è tenuto ieri a Helsinki tra il presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin (oltre due ore di faccia a faccia, assistiti solo dai rispettivi interpreti, poi i colloqui estesi alle due delegazioni) andrà valutato a pieno nei prossimi giorni, quando emergeranno maggiori elementi sui molti dossier che dividono le due potenze. La sensazione però che si può ricavare dalle dichiarazioni congiunte dei due leader e dal tono generale è che non ci sia alcun “grande accordo”, nessuna sostanziale concessione reciproca, e che anzi i rapporti tra Usa e Russia siano ancora molto complicati e di fatto in stallo su quasi tutto. Entrambe le parti si sono comunque sforzate di presentare il vertice come un “primo passo”, un “buon inizio”, almeno per cominciare a capirsi, a parlare la stessa lingua, ma i volti erano tesi, le strette di mano non troppo prolungate, i toni non troppo calorosi. Ed entrambe sembrano ritenere la non proliferazione e la Siria (sicurezza di Israele, contenimento dell’influenza iraniana) terreni di cooperazione praticabili. Mosca ha concordato con Washington sulla necessità di garantire la sicurezza di Israele al confine siriano, in linea con il cessate-il-fuoco del 1974 sulle alture del Golan. Divergenza totale invece sulla Crimea: annessione “illegale” per Trump; “noi la pensiamo in modo diverso”, ha ribadito Putin.
Tra le tante incognite, dalla conferenza stampa congiunta al termine del vertice abbiamo però due conferme: che Putin è un asso e sa giocare a suo favore la minima debolezza del suo avversario; e che il Russiagate è un cortocircuito interno da cui la politica americana fatica ancora a riprendersi. Il che, oltre a costringere il presidente Trump sulla difensiva, con grande giubilo dei suoi avversari, danneggia la politica estera Usa. Trump ha completamente sbagliato la conferenza stampa, ma non è stato certo agevolato dalla “sua” stampa, che ha disseminato trappole per lui e assist per Putin, giocando praticamente di sponda con il presidente russo. I giornalisti americani hanno infatti posto domande solo sul Russiagate, zero sui dossier di politica estera.
Trump l’ha sbagliata per eccesso di autodifesa, perché non riesce a separare, o più probabilmente non può e non vuole, il tema delle “interferenze russe” nelle elezioni presidenziali del 2016 da quello della “collusione”. Che ci siano state delle interferenze da parte di Mosca non significa che queste avessero lo scopo di far vincere Trump, né che lo abbiano aiutato a vincere, né che vi fosse una sua “collusione” con i russi. Ma comprensibilmente, poiché nel dibattito politico interno i suoi critici e avversari continuano a giocare la carta dell’ambiguità tra inteferenze e collusione per gettare ombre sulla sua vittoria e delegittimarlo, il presidente teme che ammettere le prime voglia dire alimentare il sospetto della seconda. Dunque, per difendersi, Trump finisce per mostrare di credere a Putin quando ribadisce “con forza” che “la Russia non ha mai interferito e non interferirà negli affari interni degli Stati Uniti, specialmente nei processi elettorali”.
Imbarazzante per Trump che a precisa domanda (“Lei crede a Putin o all’intelligence statunitense?”) abbia risposto: “Ho grande fiducia nella mia intelligence, ma il presidente Putin ha detto che non è stata la Russia. Non vedo perché avrebbe dovuto… Ho fiducia in entrambe le parti”. Il presidente inoltre è sembrato stabilire una “equivalenza morale” tra Stati Uniti e Russia, quando ha attribuito anche a Washington la colpa delle tensioni e dei cattivi rapporti tra i due Paesi. “Le nostre relazioni con la Russia non sono mai state peggiori, grazie a molti anni di follia e stupidità americana, e ora la caccia alle streghe manipolata!”, aveva twittato Trump poco prima dei colloqui, ricevendo un beffardo “siamo d’accordo” dal Ministero degli esteri russo. L’equivalenza morale tra gli Stati Uniti e i suoi rivali è da sempre una bestemmia, un’autentica “linea rossa” per il mondo conservatore Usa, una colpa mai perdonata all’ex presidente Obama.
“Preferisco assumermi un rischio politico per perseguire la pace, piuttosto che mettere a rischio la pace per perseguire un interesse politico”, è stata l’unica frase riuscita di Trump.
Putin non si è fatto pregare e ha affondato i suoi colpi, autentiche rasoiate: “Credere che Trump abbia vinto grazie a interferenze, vuol dire non avere fiducia nell’elettorato”. Lei preferiva che vincesse Trump? “Sì”, ha risposto il presidente russo, visto che diceva di voler normalizzare le relazioni Usa-Russia. La stessa incriminazione di agenti russi da parte del procuratore speciale Mueller ha offerto un assist a Putin. Trasformare un caso di contro-intelligence in una inchiesta giudiziaria è infatti molto scivoloso: per sostenere l’accusa in giudizio servono prove di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, non basta una elevata probabilità.
Il presidente russo ha avuto gioco facile nel ricordare che gli agenti incriminati sono presunti innocenti finché non avranno avuto un processo. E dove sono le prove? L’FBI e lo stesso Mueller non hanno avuto accesso al server hackerato del Comitato elettorale dei Democratici, ovvero al corpo del reato. Su che basi quindi sono giunti alle conclusioni forensi? Putin ha aperto anche alla possibilità che “coloro che sono sospettati di qualcosa” siano interrogati in Russia alla presenza di “rappresentanti Usa, anche della commissione e del signor Mueller”. Ma poi, e qui la “provocazione”, anche “gli agenti Usa che noi riteniamo essere coinvolti in attività illegali in territorio russo” dovrebbero essere interrogati. Come a ricordare alla controparte: le “interferenze” ci sono da sempre e sono reciproche. Tutti spiano tutti e cercano di “inteferire”. È una guerra di spie, business as usual.
L’amministrazione Trump fino ad oggi è stata nei fatti “molto dura” con la Russia, ha ricordato Nile Gardiner. Un peccato, “un’occasione mancata” che le parole del presidente Trump non abbiano rispecchiato le sue politiche.