Le poco rassicuranti rassicurazioni dell’Aifa sul vaccino Pfizer per i bambini di 5-11 anni. “Al momento” è la parola chiave che ricorre in tutte le considerazioni sulla sicurezza… Zero morti di Covid in Germania tra 5 e 18 anni, “non vaccinerei i miei bambini” dice Thomas Mertens del Koch Institut…
Prime ammissioni di un ritardo nella campagna per le terze dosi sono arrivate ieri sera, su La7, dal direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, che se ne è assunto la responsabilità. Irricevibili però, come vedremo, le sue giustificazioni:
“Sul ritardo della terza dose mi sento responsabile perché, affidandoci a studi che prevedevano una copertura dei vaccini superiore ai sei mesi, abbiamo cercato di non anticiparla. Però in emergenza si cambiano decisioni se emergono nuovi dati, come è successo”.
Peccato che i dati non siano affatto “nuovi”. I nostri decisori, politici e sanitari, avevano già nel mese di luglio tutti gli elementi per ritenere necessario organizzare la campagna per le terze dosi al più tardi a partire da inizio settembre e dalle persone più a rischio. Poi, certo, nuovi dati emergono in continuazione, quindi anche in queste settimane si sono susseguiti studi che mostrano, anzi anticipano a 3 mesi, il calo di copertura dei vaccini a mRna. Ma il dato essenziale, che avrebbe dovuto suggerire di concentrarsi sulle terze dosi, era già disponibile a luglio.
Come abbiamo già ricordato su Atlantico Quotidiano, a partire dalla metà di giugno in Israele la tendenza era chiara: con la diffusione della variante Delta si è subito notato un significativo calo di efficacia dei vaccini dopo 5-6 mesi dalla somministrazione della seconda dose. La stessa Pfizer, in un comunicato dell’8 luglio, spiegava: “come si vede dai dati raccolti sul campo dal Ministero israeliano della salute, l’efficacia del vaccino nel prevenire sia l’infezione che lo sviluppo dei sintomi declina sei mesi dopo la vaccinazione, sebbene resti alta l’efficacia nel prevenire i casi gravi”. E la casa farmaceutica annunciava che nelle settimane successive avrebbe chiesto alle autorità regolatorie, la FDA in Usa e l’Ema nella Ue, l’autorizzazione per la terza dose del suo vaccino.
A metà luglio i dati pubblicati dal governo israeliano, relativi al periodo 20 giugno-17 luglio, non lasciavano dubbi: dopo 6 mesi, efficacia contro l’infezione crollata al 39 per cento. E tra la seconda metà di luglio e la prima di agosto cominciavano ad arrivare i primi studi scientifici, sulla base dei dati raccolti da Israele e Regno Unito.
Eppure, la campagna estiva e autunnale del nostro governo è stata per il Green Pass. Tutte le risorse comunicative delle autorità politiche e sanitarie, e l’attenzione dell’opinione pubblica, sono state “dirottate” sull’obbligo di Green Pass e la sua progressiva estensione, sulla criminalizzazione dei non vaccinati e sui metodi di repressione del dissenso.
Ancora oggi – e nonostante l’allarme dei commercianti e ristoratori del Friuli-Venezia Giulia, dove il super Green Pass è già in vigore, e di Federalberghi, secondo cui “fioccano le disdette per vacanze e cenoni prenotati prima della nuova emergenza” e “per le feste a Roma chiuderà il 50 per cento degli hotel” – il presidente di Confindustria Bonomi torna a invocare una ulteriore estensione della misura (“il super Green Pass deve essere per tutti, anche per i luoghi di lavoro”), dopo essersi lamentato solo il giorno prima che “non convince”, perché “difficoltoso applicarlo”. Ormai è un caso di sdoppiamento della personalità: giorni dispari si lamentano, giorni pari lo invocano… Spiace, perché ci vanno di mezzo molte persone, imprenditori e lavoratori. Ma dovrebbero prendersela con le loro associazioni di categoria, che hanno benedetto il Green Pass e spinto per la sua versione super, innescando una nuova spirale di allarmismo, restrizioni e complicazioni, pur in assenza di emergenza…
E il risultato è che solo in questi giorni la campagna per le terze dosi sta decollando. Ma siamo al 3 dicembre, nel pieno ormai della stagione più favorevole alla circolazione del virus. Almeno due i mesi di ritardo. I dati sono impietosi: 12 milioni di vaccinati che hanno ricevuto la seconda dose da 5 mesi, di cui 5,2 milioni da 6 mesi, non hanno ancora ricevuto la terza dose. Milioni di vaccinati potenzialmente scoperti, con in tasca un pezzo di carta, e un codice QR, che non garantiscono nulla, né loro né chi gli è accanto. Ma ancora più allarmanti sono le percentuali per fascia di età, che mostrano come si tratti soprattutto delle persone più a rischio di dover ricorrere a cure ospedaliere: al 2 dicembre hanno ricevuto la terza dose solo il 53 per cento degli ottantenni, il 22,5 per cento dei settantenni, il 17,6 per cento dei sessantenni e nemmeno l’11 per cento dei cinquantenni.
Un fallimento che occuperebbe ogni giorno le prime pagine dei giornali e le aperture dei tg, se l’informazione mainstream non fosse ormai il “cane da guardia del potere”, non nel senso di scrutinio del potere ma nel senso di “al servizio del potere”, per proteggerlo dalle critiche, aiutarlo a “somministrare” la sua informazione e a perseguitare chi dissente.
Ieri sera, finalmente, le prime timide ammissioni del ritardo.
D’altra parte, se il problema principale fossero i non vaccinati, non vedremmo in Danimarca, che ha una percentuale di vaccinati superiore alla nostra, già molto alta, il picco di contagi più elevato dall’inizio della pandemia, né vedremmo un’impennata di casi in Portogallo, con addirittura il 90 per cento di vaccinati.
Che ad oggi l’unico vero fattore di rischio sia rappresentato non dai no-vax, ma dal ritardo con le terze dosi è dimostrato anche dal caso britannico. Come si spiega il picco di 54 mila nuovi casi positivi, ieri, nel Regno Unito, associato però ad un numero contenuto e gestibile di ricoveri, terapie intensive e decessi, e ad un tasso di vaccinati con doppia dose inferiore al nostro di ben 10 punti percentuali? Si spiega con i 19 milioni di terze dosi già somministrate alle persone più a rischio e una immunità naturale sempre più diffusa. Il contrario del resto d’Europa… Invece di inseguire fino all’ultimo dei no-vax, Londra si è concentrata sulle terze dosi, potendo permettersi il prezzo di decine di migliaia di casi al giorno perché i più fragili erano protetti e ad ammalarsi erano i più giovani, acquisendo l’immunità naturale. Va ricordato inoltre che il Paese ha riaperto completamente da metà luglio, non vi sono obblighi e pass per attività quotidiane, ma si fanno 1,2 milioni di test al giorno (nelle scuole ogni 2-3 giorni).
Dunque, 68 per cento di popolazione vaccinata, niente obbligo vaccinale, niente Pass per pub e ristoranti (figurarsi per lavorare), nessuna discriminazione, tutto aperto: è possibile, proprio perché i vaccini funzionano per ciò che conta, “normalizzare” il China virus in modo da non sovraccaricare il sistema sanitario, ma a patto di abbandonare la pericolosa logica Covid-zero e di concentrarsi, pragmaticamente, sui soggetti più a rischio.
Di obbligo vaccinale invece si comincia a parlare sul Continente. E guarda caso, il dibattito viene innescato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen proprio quando ad essere in maggiori difficoltà, con un tasso di vaccinazione tra i più deludenti in Europa, è la Germania. Berlino sembra cercare una sponda, un “ombrello Ue” per far digerire l’obbligo ai tedeschi. Ma non è detto che un obbligo serva a tutti i Paesi Ue. Anzi, i dati mostrano il contrario. Se l’Ue fosse quella invocata dai PiùEuropeisti, in queste ore l’obbligo vaccinale verrebbe già decretato per tutti, a prescindere dal tasso di vaccinazione, dal 90 per cento del Portogallo al 68 della Germania. Preservare ciò che resta di sovranità e competizione tra Stati è vitale…
Della via dell’obbligo non è convinto Magrini dell’Aifa, che sul tema ha espresso ieri sera una posizione a nostro avviso molto saggia:
“Noi come Aifa siamo favorevoli, per coerenza con la nostra storia, alla persuasione, al convincimento e alla volontarietà delle vaccinazioni, perché è la miglior strada per essere uniti. L’obbligo è un fattore che potrebbe dividerci ulteriormente, invece. Ma la decisione spetta al decisore politico”.
Se come abbiamo visto è fondamentale concentrarsi sulle persone a rischio anziché inseguire tutta la popolazione, dal momento che questi vaccini non portano all’immunità di gregge, l’Italia va in direzione opposta con un’altra “distrazione”, aprendo la campagna per la vaccinazione dei bambini dai 5 agli 11 anni, accompagnata dall’immancabile nuova narrazione, del tutto strumentale.
Dopo l’Ema, anche l’Aifa ha approvato il vaccino Pfizer per questa fascia di età. “Al momento” è la parola chiave che ricorre in tutte le considerazioni dell’Aifa sulla sicurezza: “non si evidenziano al momento segnali di allerta in termini di sicurezza”; “non sono stati osservati, almeno nel follow up a breve termine attualmente disponibile, casi di anafilassi o miocarditi/pericarditi”; “i dati disponibili al momento e derivanti sia dallo studio registrativo che dal database di farmacovigilanza americano non evidenziano particolari problemi di sicurezza”.
Le considerazioni dell’Aifa sulla sicurezza del vaccino per la fascia di età 5-11 anni si basano infatti su un “follow up a breve termine” di circa 3.000 bambini vaccinati e sui dati di farmacovigilanza Usa relativi alla prima dose e ad un periodo di osservazione medio di 16 giorni su 3,3 milioni di bambini. Un po’ pochino.
Ricordiamo, come abbiamo riportato in un precedente articolo, che nella documentazione della stessa Pfizer alla FDA Usa si afferma che il numero dei bambini su cui è stato sperimentato il vaccino è “troppo piccolo per rilevare qualsiasi potenziale rischio di miocardite associato alla vaccinazione”. La tesi di Pfizer è in realtà una supposizione, ben sintetizzata da Giorgio Tamburlini, pediatra di Trieste, presidente del Centro per la salute del bambino: “Non è verosimile che con una dose ridotta a un terzo i bambini possano avere più effetti collaterali degli adolescenti”.
E non potrebbe essere altrimenti, ci rendiamo conto, perché questi vaccini sono approvati con procedure accelerate, giustificate dall’emergenza China virus. Non c’è stato il tempo materiale per uno studio sugli effetti avversi a medio-lungo termine. Ma se questo è concepibile, e persino accettabile, nel caso degli adulti, per i quali il rischio di malattia severa è concreto, è molto meno giustificato nel caso dei bambini, per i quali come abbiamo ricordato i rischi di ospedalizzazione e decesso sono dello zero virgola zero, inferiori di centinaia di volte ai rischi di complicazioni nelle malattie contro le quali li vacciniamo da decenni con stranoti vaccini, obbligatori e raccomandati. Su oltre 250 mila bambini contagiati dal China virus da inizio pandemia, solo lo 0,6 per cento è finito in ospedale, lo 0,014 per cento in terapia intensiva e lo 0,004 per cento è deceduto (9 bambini).
Come riporta l’Aifa stessa, un recente rapporto ECDC mostra che la maggior parte dei bambini di 5-11 anni ospedalizzati non presentava alcun fattore di rischio. A confermarlo sul campo anche il professor Girardi, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani: “nei bambini sani senza patologie preesistenti è nella quasi totalità dei casi una malattia molto lieve con manifestazioni cliniche quasi nulle”.
Uno studio condotto da istituti pediatrici tedeschi, ha concluso che nessun bambino sano di età compresa tra 5 e 18 anni è morto di China virus in Germania nei primi 15 mesi della pandemia. Tra chi presentava patologie pregresse, solo 6. Il rischio di terapia intensiva 1 su 50 mila. “Non vaccinerei i miei bambini contro il Covid, non ci sono i dati né gli studi di autorizzazione sulla compatibilità del vaccino nella fascia 5-11 anni. Non possiamo sapere nulla, al momento, su eventuali danni di lungo corso”, ha spiegato Thomas Mertens, presidente della Commissione Stiko del Koch Institut alla Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Ma c’è un altro passaggio, in particolare, nel comunicato dell’Aifa, che merita attenzione, laddove si sottolinea che la vaccinazione dei bambini “comporta benefici quali la possibilità di frequentare la scuola e condurre una vita sociale connotata da elementi ricreativi ed educativi che sono particolarmente importanti per lo sviluppo psichico e della personalità in questa fascia di età”. Visto che al momento (e sottolineiamo: al momento) non c’è obbligo di Green Pass per questa fascia di età, dobbiamo considerare queste parole come premonitrici dell’obbligo che verrà? Non hanno molto senso, invece, se si riferiscono alle eventuali quarantene (al momento previste anche per i vaccinati) o al decorso della malattia (un periodo paragonabile a quello di altre malattie/infortuni, quindi tollerabile).