Se confermata la notizia sarebbe tragica: un giovane nordcoreano di ritorno dalla Cina è stato condannato a morte per aver introdotto nel Paese della dinastia rossa dei Kim la serie di “Squid Game” attraverso una pennetta USB. Esempio di brutale violenza nella realtà che fa impallidire le stesse fantasie delle produzioni estremo-orientali. E di fronte a tale ferocia appaiono un po’ patetiche, profuse da un soave odore di fiori di giardinetti pubblici, anche le considerazioni che giorni addietro faceva sul Corriere della Sera Walter Veltroni sui manga.
Walter Veltroni e i manga… Sentivamo il bisogno di una lectio veltroniana sull’universo fantastico orientale riprodotto in strisce? Forse no, anche se vien da pensare che una indicazione positiva scaturisce dall’articolo pubblicato a inizio novembre dal Corsera: Veltroni davvero ha rinunciato alle sue aspirazioni quirinalizie se parte penna in resta contro un monumento della cultura del Giappone. I manga stanno a Tokyo, come la pizza sta all’Italia. Ce la prenderemmo un po’ a male se un politico di un altro Paese dicesse che la pizza fa male. Veltroni riguardo ai manga dice che suscitano malumore quelle storie “sempre intrise di una violenza parossistica perciò irreale”. In un mondo in cui un immarcescibile dittatore comunista fucila un ragazzo per il corpo di reato di una pennetta USB forse dovrebbe suscitare più apprensione la violenza “reale”; ma nel secondary world della cultura di sinistra talvolta le parole vengono temute più dei fatti.
Veltroni conclude il suo articolo con ecumenismo (che stia facendo ancora un pensierino sul Quirinale?): precisa che comunque non bisogna temere il “Vento d’Oriente” dei fumetti letti all’incontrario e confessa di non essere comunque in grado di “dare un giudizio distintivo sul fenomeno culturale in corso”.
La sospensione del giudizio da parte del più colto dei politici di sinistra se da un lato torna a suscitare interrogativi sulla necessità di quell’articolo, dall’altro ci appare più gentile rispetto alle sentenze dogmatiche di condanna, vere e proprie “fatwa”, scagliate dai comunisti alla fine degli anni Settanta quando fecero irruzione dagli schermi televisivi Ufo-Robot, Goldrake, Mazinger… Era ancora in piedi il Muro di Berlino, la gerontocrazia del Partito Comunista dettava legge da Berlino a Vladivostok, ma la sinistra italiana temeva il “militarismo giapponese” in cartone animato.
Nel gennaio del 1979 su Repubblica il deputato del PCI (ma in precedenza cofondatore di quel poetico e pacifico consesso che fu Avanguardia Operaia) Silverio Corvisieri metteva in guardia dall’entusiasmo per Goldrake che era insieme “uomo, moderno samurai e ultrapotente macchina di guerra spaziale” ed esortava alla sorveglianza i “genitori democratici”.
Seguirono altri articoli, addirittura interpellanze parlamentari anche se la battaglia civile fu persa: che i bambini preferissero i cartoni animati giapponesi alle narrazioni dell’Unità o della Feltrinelli rappresentava forse il primo scricchiolio nel moloch del comunismo reale.
Chi scrive era uno di quei bambini che i comunisti italiani non erano riusciti a salvare dal militarismo giapponese… Anni dopo avrei avuto il piacere di intervistare … la voce di Actarus in Goldrake e di Hiroshi Sheba in Jeeg Robot: l’attore e doppiatore italiano Romano Malaspina. Erano passati venticinque anni ma il timbro di voce “epica” era lo stesso; bastava chiudere gli occhi e ritornavi bambino di fronte agli eroi della tua fanciullezza.
Il marchese Malaspina, forbito intellettuale, mi disse cose interessanti nell’intervista pubblicata su L’Indipendente di Giordano Bruno Guerri: “Contro di me fecero un’interpellanza parlamentare! Davvero si credeva che i cartoni animati avrebbero riportato l’Italia alla barbarie… Eppure – si animava Malaspina – raccoglievo ogni giorno bauli di lettere di bambini. Erano letterine d’amore con i disegni dei fiorellini. I bambini avevano compreso l’aspetto sentimentale che avevo trasfuso nei miei personaggi: distinguevano benissimo l’animo romantico di Actarus dalla sua corazza meccanica di robot. E soprattutto avevano compreso il vero messaggio degli Ufo-Robot che non consisteva in un elogio della violenza, bensì nell’idea che per difendere la terra dai suoi nemici bisogna essere determinati”.
Insomma Malaspina rivendicava l’anima cavalleresca dei “suoi” personaggi. Poi mi disse altre cose più goliardiche (incluse alcune bordate al suo “nemico personale”, il doppiatore Ferruccio Amendola) che non inclusi nell’intervista. La più divertente delle parti tralasciate fu il ricordo di un medico, di un austero luminare della medicina che gli aveva confidato come a sera, chiuso in camera con la moglie, prima del fatidico impatto gridasse a squarciagola: “Alabarda spaziale!” e qui le immagini dei robot giapponesi si confondono con le note di “Gianna” uscita nel 1978 come il primo episodio di Goldrake: la canzone con la quale Rino Gaetano parlava “di un mondo diverso, ma fatto di sesso” e chiudeva con un sorriso beffardo e gaudente gli anni di piombo. Forse per questo gli intellettuali di sinistra temevano tanto i cartoni giapponesi, i figli televisivi dei manga: perché divulgavano una narrazione poetica, cavalleresca, completamente libera dagli slogan del totalitarismo culturale comunista; perché contribuivano a voltare pagina rispetto agli anni del furore ideologico con una “alabarda spaziale” che il dottore usava per fare l’amore e non per fare la guerra!
Ci pensi Walter.