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Venezuela, arrestato un ex generale chavista: ecco come potrebbe aprire la strada alla fine del narco-stato socialista di Maduro

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Il generale Hugo Carvajal, ex capo del controspionaggio militare all’epoca di Chávez, è stato arrestato venerdì scorso a Madrid dalla polizia spagnola su richiesta degli Stati Uniti. La notizia è passata quasi inosservata ma si tratta di un fatto rilevante nello sviluppo della vicenda venezuelana, da tre mesi ritornata alla ribalta internazionale dopo la proclamazione e il riconoscimento da parte di una cinquantina di paesi di Juan Guaidò come presidente legittimo in contrapposizione a Nicolás Maduro. Carvajal, detto “il pollo”, è stato prelevato in casa del figlio con un passaporto falso a nome di José Mourinho (l’allenatore), scelta quantomeno curiosa per un ex militare di prim’ordine che pretendeva di passare inosservato. Su di lui gravavano un ordine di cattura internazionale e una richiesta di estradizione di Washington per narcotraffico e riciclaggio di denaro sporco. Carvajal era già stato arrestato cinque anni fa nell’isola di Aruba con le stesse accuse ma era riuscito a sfuggire alla consegna agli Stati Uniti grazie al passaporto diplomatico di cui disponeva in quel momento. Il regime chavista lo accolse come un eroe al suo ritorno in patria. Da allora molte cose sono cambiate.

La prima e più importante è che Carvajal, da tempo ai margini della scena politica, nelle scorse settimane si era pronunciato pubblicamente a favore di Guaidò, invitando le forze armate ad abbandonare Maduro e a favorire la transizione. Questa scelta di campo aveva creato più di un’incomodità nei ranghi dell’ufficialismo che, nonostante tutto, lo considerava ancora uno dei suoi. Diosdado Cabello, numero due del regime, si era espresso con contundenza nei confronti del generale accusandolo di stare “negoziando con l’imperialismo”. Una affermazione che, al di là della propaganda di rito, denota certa inquietudine nel chavismo. È facile intuire il perché. Lo stesso giorno dell’arresto Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida di origine cubana, pubblicava nel suo account questo tweet: “Hugo Carvajal (…) sarà presto negli Stati Uniti dove rivelerà informazioni importanti sul regime di Maduro. Una brutta giornata per la famiglia criminale madurista”. Rubio non è un politico qualsiasi ma uno degli artefici ideologici della strategia della Casa Bianca sul Venezuela. Grazie soprattutto a lui Trump si convinse che non poteva essere ulteriormente tollerata la presenza di un narco-stato socialista in America Latina, sostenuto politicamente dai cubani. La possibilità, se non la certezza, che Carvajal possa aprire le porte degli affari illeciti del regime e svelarne l’entità e la penetrazione a livello internazionale è ad oggi uno degli incubi ricorrenti del palazzo di Miraflores (la sede della presidenza a Caracas). E in un momento di stallo come l’attuale, in cui diplomazia e opzione militare sembrano avere le polveri bagnate, questa prospettiva potrebbe rappresentare l’unica alternativa possibile per ottenere la fine del regime chavista senza tamburi di guerra.

È questa almeno la teoria di Juan Carlos Sosa Azpúrua, scrittore, avvocato e professore universitario venezuelano, noto tra l’altro per essere stato il primo a denunciare al Tribunale Penale Internazionale il governo Chávez per crimini contro l’umanità e terrorismo di stato, quando la sinistra mondiale lo considerava una guida spirituale (per alcuni lo è ancora). Sosa da tempo suggerisce che la crisi venezuelana debba essere affrontata e risolta non attraverso i consueti canali del diritto pubblico internazionale ma con azioni di polizia, trattando il regime di Maduro alla stregua di un’associazione mafiosa dedita al traffico di stupefacenti e al contrabbando, come si fece in Colombia con i cartelli della droga. In concreto si tratterebbe di seguire i seguenti passi: 1) firma di un accordo tra Guaidò e la DEA (il dipartimento antidroga statunitense) per autorizzare quest’ultima a intervenire in territorio venezuelano e a catturare – in collaborazione con funzionari locali – i membri del Cartel de los Soles, composto – secondo Sosa – da quadri delle forze armate e capeggiato dallo stesso Maduro; 2) una volta neutralizzati i vertici del Cartel, le forze armate nazionali si troverebbero in condizione di appoggiare Guaidò senza temere ritorsioni da parte del governo; 3) il presidente incaricato dovrebbe designare subito un nuovo stato maggiore dell’esercito che si farebbe carico del coordinamento delle forze armate leali al nuovo corso democratico; 4) il passo successivo sarebbe la firma di un accordo bilaterale di assistenza militare con gli Stati Uniti con l’installazione di basi militari americane in territorio venezuelano (Plan Venezuela); 5) questa struttura appoggerebbe il lavoro della DEA e si incaricherebbe di controllare i gruppi paramilitari e le milizie attualmente al servizio di Maduro.

I vantaggi di questa strategia sarebbero chiari, secondo Sosa: nessuna necessità di autorizzazioni da parte della comunità internazionale come si richiederebbe nel caso di un’azione militare diretta, un’operazione moralmente ineccepibile in quanto volta a combattere il traffico di droga e il riciclaggio per la quale la Casa Bianca potrebbe ottenere facilmente l’appoggio del Congresso, adducendo ragioni di difesa del proprio interesse nazionale senza violare nessun principio della giurisdizione internazionale. Sembra fantascienza ma la prospettiva potrebbe materializzarsi prima del previsto, tenendo conto delle difficoltà che l’appoggio di Russia e Cina sta creando ad una soluzione negoziata o militare della tragedia venezuelana. Un’azione di polizia, coordinata da Washington ed eseguita da effettivi locali, potrebbe risultare accettabile perfino a Mosca e a Pechino, dal momento che non implicherebbe di per sé un intervento unilaterale diretto contro un alleato ma rappresenterebbe piuttosto un’operazione nei confronti di un’organizzazione criminale che nel caso venezuelano si è fatta Stato.

Si calcola che il 60 per cento della droga che entra in Europa provenga da traffici controllati dal territorio venezuelano, cifra che praticamente si ripete nel caso degli Stati Uniti. Parte dei proventi degli affari illeciti sono diretti a Hamas e a Hezbollah che mantengono cellule operative in Venezuela. Il resto viene fatto transitare nella rete delle imprese statali, prima fra tutte quella petrolifera (PDVSA), che agiscono come enormi lavatrici di denaro sporco. Dopo l’arresto di Carvajal il tempo dirá se la tesi di Sosa è corretta e se la liberazione del Venezuela dipenderà dalla sconfitta del narco-stato chavista.

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